Il mondo solo per noi

 

 

di Flavio Arensi

 

 

( Se il mondo fosse chiaro, l’arte non esisterebbe )     Albert Camus
Stranamente, il lavoro del critico, impone di parlare delle emozioni suscitate da un’opera d’arte, oppure di un suo succedaneo, che oggi ancor meglio fa scrivere chiunque; non che tale impiego sia utile a qualcuno, se non per riempire pagine altrimenti candide, o solleticare – nel migliore dei casi – cervelli di norma occupati in attitudini diverse dall’indagine estetica. Ma, tant’è, qualcuno ha pur inventato questa professione accessoria. Perciò, l’usanza vuole si intreccino parole e commenti intorno all’elaborazione di qualcun’altro, del pittore nel caso specifico di Fujio Nishida. Meditando sui suoi recenti quadri, laboriosi specchi dell’attività animica prima ancora che professionale, e dopo aver già profuso qualche inutile sciocchezza in altri testi, ho raggiunto la brillante constatazione che io a Fujio Nishida voglio bene. Gliene voglio perché è un bravo pittore; perché racchiude nei dipinti quella difficoltà di pensiero che talvolta gli risulta arduo comunicare nel suo italiano stravagante, in cui “r” e “l” si confondo, nel misto di una parlata pur sempre dolce e rispettosa. Gli voglio bene perché è una persona straordinaria nella sua umanità disciplinata, che assolve nei quadri la funzione poetica di raccontare con pochi elementi discorsivi un dinamismo invece vasto, nella semplificazione zen di chi prima d’agire incomincia ad organizzare il pensiero. Il suo vocabolario preferito si compone di poche eccezionali parole: grazie, scusa, prego; senza alcun intento turbativo dell’Universo.
I suoi quadri, le pere argomentate, i blu che travalicano il vero per diventare un continuo cielo di stelle interiori, sono il risultato di questo carattere docile e premuroso. Peccato qualcuno ancora non conosca la grazia di un uomo che fa il pittore, e a furia di fare il pittore lo è anche pittore (fare ed essere sono cose dissimili), ma sempre nella prospettiva che innanzitutto accentua la sua dimensione umana, di una civiltà resa in materia colorata alla stregua di una piccola e costante magia. Che importa non si enfatizzi ora la perizia complessa della pennellata, oppure la mitezza che ogni singolo centimetro della tela racchiude come una pesca odorosa il nocciolo. L’intermediazione esegetica che posso offrire non raggiungerebbe comunque il senso originale della sua attività, né forse risulterebbe affatto utile sapere i motivi segreti della sua dedizione al quadro, coi ritmi lenti e costanti dell’eremita, impegnato ad annullarsi per scoprirsi. Un paradosso di cui certi pittori, quelli che regolano la quotidianità in virtù del mestiere, o del dono (se tale lo ritengono), usufruiscono come una specie di viaggio che incomincia da loro e termina in loro. Un pellegrinaggio da qui a qui, lungo quanto il più vasto dei percorsi, oscuro come il più profondo dei mari.
Il pudore con cui egli si espone al resto della compagine vivente, scompare sulla tela, dove egli invece profonde il rispetto urgente per ogni singolo elemento costitutivo del Creato. Si tratta della farmaceutica propensione di significare ogni gesto in forza dell’ordine armonico interno, e dunque progettare il mondo seguendo schemi intrinseci. D’altra parte, a ben guardare, cos’è l’umanità se non un crocchio di pere immobili, qualora essa perda la Coscienza d’esistere? E con ciò il tesoro che ciascuno stringe fra le mani pur senza badarci. Nishida non fa altro che mettere sul palcoscenico stretto dell’arte l’idea di poter esistere pure (e soprattutto) nell’accortezza delle piccole cose, dei minuscoli fenomeni cui ci si abitua a offrire scarsa attenzione. Avere “attenzione” per qualsiasi elemento terreno induce al rispetto, alla compartecipazione degli attori chiamati in causa, trovandosi nella strana disposizione di avere – almeno per quel istante – destini comuni. Perché mai non ardire a varcare l’uscio di casa consapevoli della straordinarietà del nostro vivere? Si esce e si scopre che il primo fiore in cui inciampiamo è sbocciato per noi, la nuvola sopra la testa scorre per noi, l’albero del parco fa ombra per noi. Sicché, l’illusione chiamata realtà svanisce e si ravvisa, nel profondo del nostro stomaco, quanto i big-bang dell’Universo siano i big-bang della nostra anima, ossia quotidianamente in noi accade l’intera occorrenza del Cosmo. Il mondo solo per noi. Permane tuttora la considerazione di molti nel ritenere le prove del reale indecifrabili, e dunque la necessità di affidarsi alla traduzione simbolica dell’artista per decodificare il senso stretto dell’esistenza. Eppure, sbarrando gli occhi di fronte a ciò che accade fuori di noi, tutto sembra talmente chiaro e preciso se letto coll’intenzione di ascoltare, anziché parlare. Non servono maestri ad indicare la via. Il silenzio che Nishida frappone fra sé e il quadro è in un certo senso il suo porgere orecchio all’esistenza, rinunciando alla consuetudine di comprendere attraverso la ragione quello che non potrà mai essere del tutto razionalizzato. I cesti di frutta che matura durante il tempo esteso della posa, oppure i fiori secchi armoniosamente – puntualmente – disposti nel sentito equilibrato dei sentimenti, sono minuscoli frammenti di un’avventura privata sciolti nella quiete armonica dell’esistenza collettiva, coi suoi cicli evolutivi e fenomenici; la storia di un’opera d’arte è la storia dell’anima che l’ha creata. Piccole cose inutili, e nella loro inutilità le più importanti manifestazioni dello spirito. Che importa dunque commentarle se già conservano tutte le parole necessarie per dialogare con chi ascolta. Soltanto con chi ascolta.
Suceava (Romania), maggio 2005
Testo critico apparso sul Catalogo “Fujio Nishida” di Pittura Italiana – Milano – Maggio 2005