Crossing light and space
di Cynthia Penna
Verso la fine degli anni ’60 del ‘900 la ricerca di un gruppo di artisti che lavoravano nella “Grande Los Angeles” si era orientata sui fenomeni della percezione sensoriale e sull’investigazione di principi teorici basilari quali la stessa funzione dell’essere nel mondo, tanto da far affermare a Robert Irwin che l’essere artista era in qualche modo essere al contempo filosofo.
Occorre perciò andare indietro al concetto filosofico di fenomenologia così come concepita da Edmund Husserl per spiegare cosa è accaduto nell’arte Americana e precipuamente in quella Californiana verso la metà/fine degli anni ’60.
La fenomenologia è scienza contemplativa, rigorosa , intuitiva (perché coglie le essenze delle cose anche attraverso la percezione sensibile), non-oggettiva(prescinde da ogni fatto o realtà e si rivolge alle essenze), soggettiva (perché l’analisi della coscienza mette capo all’io come soggetto unificante di tutte le intenzionalità costitutive), scienza delle origini e dei principi primi, impersonale (perché al ricercatore si richiedono solo doti teoretiche).
In realtà, consapevoli o meno, questi artisti applicavano nella loro ricerca alcuni dei canoni teoretici della fenomenologia: certamente quello sensoriale o intuitivo in quanto, servendosi dei media più disparati, tendevano a creare situazioni capaci di stimolare nel pubblico una conoscenza sensoriale e quello soggettivo come analisi della coscienza che coinvolge l’io. Questo tipo di sperimentazioni può essere definito come “Phenomenal”. Cercando di investigare sulla percezione sensoriale di luce, colore e spazio da parte dello spettatore, dettero vita ad un movimento artistico (anche se negato come tale da molti di loro) definito “Light and Space”.
“Un movimento che focalizzava l’attenzione su fenomeni percettivi come luce, volume e proporzione e sull’uso di materiali come vetro ( Mary Corse, Laddie John Dill e Larry Bell), resine e fusione di acrilico (De Wain Valentine, Peter Alexander). Questi artisti, interessati ai fenomeni di rifrazione e proiezione della luce sul e dal manufatto, si avvalsero dell’apporto delle nuove tecnologie derivanti dalle scoperte delle industrie di ingegneria aerospaziale esistenti nella California del Sud, in modo da produrre oggetti d’arte sensuali e intrisi di luce, sperimentando materiali nuovissimi all’epoca come gli acrilici, il plexiglass e le resine”. (*)
Il movimento si sviluppò maggiormente nella California del Sud, territorio questo fortemente influenzato da due elementi naturali quali gli enormi spazi di deserto e la luce che hanno inciso profondamente sulla visione estetica e sulla produzione artistica di quegli anni.
Dalla metà degli anni ’60 gli artisti californiani si orientarono anche verso il movimento Minimalista dando allo stesso una caratteristica del tutto peculiare: a differenza dei loro colleghi della Costa Est degli Stati Uniti che ritenevano l’oggetto in sé imprescindibilmente legato alla forma e al materiale, gli artisti californiani miravano alla sperimentazione della percezione della luce e del colore da parte dell’occhio umano piuttosto che all’oggetto in sé quale manufatto d’arte.”(*) La sperimentazione era centrata sul tema dell’”illusione” o “illusorietà della percezione” così come era accaduto nel Rinascimento Italiano con il gioco della prospettiva e il fine della ricerca era quello dello stupore che si avverte di fronte ad uno “stato” di percezione sensoriale in cui lo spettatore viene immerso. Perciò i canoni fondamentali della loro arte si possono riassumere in tre locuzioni: la presenzadella luce, la sensazione del colore, e il sentimento dato dallo spazio circostante. E’ interessante notare come parallelamente in Europa si andava sviluppando il movimento “Cinetico” che, iniziato un decennio prima attorno ad un gruppo di artisti sudamericani emigrati in Francia che dettero vita alGRAV (Groupe de Recherche d’Art Visuel), orientava la ricerca sui medesimi temi di percezione sensoriale dello spazio e soprattutto della luce che veniva proiettata dentro scatole di metallo contenenti oggetti in movimento attivati da corrente elettrica. La sperimentazione aveva in comune principi quali la percezione ottica della luce e del movimento e nel contempo il rifiuto del bidimensionalismo pittorico, del pesante impasto di colore sulla tela, dell’espressione artistica polarizzata soltanto su pittura o scultura, ma ne divergeva totalmente per i mezzi adoperati, le tecniche e i materiali.
Ma non fu solo questione di LUCE; abbiamo detto che l’Ovest americano è un territorio di immense proporzioni e relativamente abitato, ma soprattutto definito dai deserti; la spazialità che si sente e si percepisce in questi deserti non può lasciare indifferenti; pertanto TUTTI gli artisti americani che vivono o lavorano nell’Ovest hanno a che fare prima o poi con questa spazialità che in arte si traduce in SPAZIO. E’ un ineluttabile “destino” che condanna tutti loro a cimentarsi con le questioni sullo spazio.
Peter Lodato nasce a Los Angeles, studia e si forma nelle scuole e nelle Università californiane di metà anni ’60; inizia la sua esperienza lavorativa in California e specificamente nella California del Sud. Questo significa molto nella sua esperienza artistica e di vita. Ricordiamo anche che alla metà degli anni ’60 iniziano a prendere consistenza tutti i movimenti politici e studenteschi centrati sulla non violenza, sulla lotta alla guerra del Vietnam e sulle tematiche dell’apartheid dei Neri americani. Questo incredibile mix di idee politiche e sociali, in uno con la realtà circostante fatta di spazio e luce, hanno forgiato una personalità che ha saputo confrontarsi con tutte queste tematiche ed elaborarle in chiave artistica in modo eccellente, tanto da far scrivere a Fidel Danieli, direttore della rivista ArtForum nel 1975, che “era tentato di suggerire che (Lodato) è uno dei maggiori artisti della California del Sud ad emergere negli anni ‘70”. (*)
Lodato elabora la tematica della spazialità in arte in chiave psicologica e prima ancora percettiva;
la sua ricerca è focalizzata su come lo spazio viene percepito e abitato dagli esseri umani (Environmental Art); su come questi riescono a suddividere per compartimenti il proprio personale spazio vitale in relazione a quello degli altri, sia da un punto di vista fisiologico che psicologico.
E soprattutto Lodato investiga la tematica della visione in rapporto allo spazio nel senso che la “visione” contiene in sé un paradosso: “promette il mondoma rimane frustrantemente parziale” (Merleau-Ponty in The Primary of Perception) in quanto limitata dalla condizione della realtà fisica. La visione perciò è illusione; essa è ben lontana dall’essere perfetta perché, pur offrendo la verità della realtà portata immediatamente a livello di consapevolezza, offre nel contempo anche irrealtà ed errore. L’ambiguità contenuta nella visione è quello che Lodato analizza e sperimenta. La sua arte è altresì meditazione sugli spazi geometrici in cui viviamo e lavoriamo cioè su proporzioni geometriche della spazialità che ci circonda.
L’ambiguità della visione stessa e delle possibili letture di una stessa realtà, la differenza tra il “vedere” e il “conoscere” vedendo, l’illusorietà della visione che non ci concede la verità della realtà, sono temi sperimentati fin dalle prime opere degli anni 70 e 80 quali “La Mer” (1985) installazione per il San Diego Museum of Art, “Ruins”, “Red Room” e “Taukin”.
Un lieve surrealismo, una latente ansia e una sottile destabilizzazione che si prova innanzi alle opere di Lodato danno il senso e il peso dell’illusorietà della visione.
Eppure le sue “apparenti” geometrie non hanno nulla a che fare con la geometria, così come le “strisce “di colore che si alternano nelle opere non hanno nulla a che fare con un impianto di geometrico verticalismo. Lodato interpreta lo spazio come un rapporto di interno/esterno in simultanea relazione tra loro. La sua tela è un campo di “battaglia” visto dall’alto in cui si alternano continuamente spazi chiusi e spazi aperti, chiusure e vie di fuga, luci ed ombre: attraversamenti appunto.
La somiglianza di alcune strutture con “case” che hanno una sorta di fumaiolo non deve indurre in errore rispetto a quel che trattasi realmente per l’artista: in pianta e con visione prospettica dall’alto, una convergenza di linee che chiude lo spazio esterno ma ne permette la fuga attraverso una apertura(il fumaiolo) da cui pervade la luce. Qui il rapporto è tutto giocato tra spazio e luce: luce che penetra laddove lo spazio non è tutto ermeticamente sbarrato o interdetto; luce che si proietta su ideali pareti di un “interno” e che, inondando questo spazio chiuso, lo rende illusoriamente aperto .
Allo stesso modo le apparenti linee verticali bicolore sono semplicemente un rapporto di apertura/ chiusura dello spazio; spazio e luce in alternanza; interno ed esterno di un corpo. Ma quel che denota maggiormente la illusorietà delle apparenti chiusure è l’elemento di colore scuro che non viene MAI definito e “chiuso” del tutto nel suo perimetro in quanto è contornato in uno dei lati da una “spazialità” di colore chiaro che lo mette in relazione immediata con l’altra spazialità “aperta”. Insomma in Lodato non vi è mai uno spazio chiuso tout court, perché vi è sempre la possibilità di passare da uno spazio all’altro, una intercomunicabilità di campi di luce.
Molto diverso dall’opera di Barnett Newman o di Brice Marden che operano per sezioni di spazio chiuse con margini definiti di colorazione satura e netta. Colorazioni che non concedono nulla all’elemento luce che non interessa la sperimentazione del gruppo di artisti di New York e della Costa Est degli USA non influenzati da elementi quali la spazialità e la luce.
L’opera di Lodato può rapportarsi sotto certi aspetti a quella di John McLaughlin per la sperimentazione di una spazialità come “vuoto”. Una sorta di indagine sul “cosa c’è dietro l’angolo” che ha sempre attratto questi due artisti. Per McLaughlin il vuoto è sostanzialmente “spazio di meditazione”; pertanto l’oltre rispetto alla forma sul campo pittorico è dato dall’infinito che attrae come meditazione trascendentale.
In Lodato dietro l’angolo c’è luce, sostanzialmente spazio esterno e interno agli esseri umani; spazialità reale eppur illusoria e spazialità dell’immaginazione.
La sua opera appare maggiormente vicina al concetto ispiratore del verticalismo lineare di Daniel Buren che già negli anni ’60 sviluppava in Francia concetti analoghi cercando di individuare, attraverso una strategia minimalista, l’essenza dell’arte pittorica nei suoi concetti basilari di supporto, segno, primo piano e sfondo, luce e colore. Ma soprattutto nel concetto di arte “ambientale” (environmental Art) nel senso di una architettura dello spazio che crei nello spettatore un senso di consapevolezza. Attraverso l’alterazione della prospettiva, i suoi lavori creano una reale modifica della percezione dell’intero contesto visivo. In realtà lo scopo di Buren nei suoi lavori site specific è quello di creare una interazione tra arte e vita e in maniera del tutto simile si atteggia anche l’arte di Lodato soprattutto nelle sue opere pittoriche di “architetture di interni”. Analogamente si può parlare del gioco di prospettiva creato nelle opere ambientali di Terry Haggerty dove lo spettatore viene immerso in un ambiente di alta distorsione sensoriale della percezione ottica e dove le linee tracciate sul campo pittorico più che direzionarne la visione, investono lo spettatore invadendone non solo la percezione visiva e quindi fisica, ma anche la sfera emozionale.
Una relazione non azzardata ci pare quella con alcune opere dell’italiano Marco Tirelli che pur nell’ambito del suo “barocco geometrico” ereditato tout court dalla sua natalità romana, interpreta la geometria senza nulla concedere all’astrazione costruttiva, bensì una geometria fondata su rapporti di spazio e luce in senso piuttosto analogo a Lodato. Due realtà, due epoche e due mondi tanto lontani tra loro, si intrecciano sul piano della visione dell’arte come qualcosa di simbolico e di emozionale adoperando la geometria scarnificata da ogni accento razionale. E’ una interpretazione dell’arte tutta che si pone in maniera analoga tra i due: spazi che servono per la meditazione; uno stato meditativo che viene accentuato da una luce pervasiva e inondante; una luce che trasfigura tutto il rapporto geometrico matematico e razionale della geometria stessa. In entrambi emerge un elemento di “simmetria” che è altro rispetto a “geometria” pura. La simmetria da luogo ad una sorta di ordine mentale, di organizzazione dello spazio che è segno distintivo di entrambi gli artisti, ma la simmetria in questo caso è adoperata per far posto alla luce e per condurre al passaggio dalla superficie allo spazio puro, dalla bidimensionalità della pittura piatta alla tridimensionalità della profondità nascosta o palese.
Una profondità che cela, che nasconde e nel contempo disvela, rende il senso delle infinite capacità della mente di immergersi, di predisporsi e di captare la dimensione spirituale.
La peculiarità di Lodato rispetto a tutti gli artisti che si sono confrontati con la tematica della percezione sensoriale è proprio la poetica e la liricità dell’opera. La peculiarità di Lodato emerge prepotentemente e si distacca dalla mera linearità del tratto segnico andando a sconfinare non più e soltanto nell’universo della percezione visiva, ma bensì nell’universo intimo dello spettatore, cioè nella sua sfera emotiva. In alcune opere una sorta di “occhio” o buco circolare (dichiaratamente un omaggio dell’artista all’occhio del Pantheon di Roma) fa filtrare la luce e mette immediatamente in relazione l’esterno e l’interno di uno spazio, ed immerge in un’aura di trascendenza il tutto. Dai deserti californiani allo spazio chiuso del Pantheon di Roma, è la luce che determina la scena e determina altresì l’emozione di chi guarda.
La liricità delle sue opere sta nel fatto che esse non toccano più e solo la sfera percettiva, ma la sfera personale e intima dello spettatore proiettandolo nel mondo dell’inconscio o del sogno,
Nelle opere in cui si alternano righe verticali chiare e scure lo “sfrangiamento” dei margini, la opacità di questi margini che vanno a sfociare o a gettarsi nel chiarore dello spazio retroposto, lascia campo all’immaginazione, all’emozione, al sogno e al desiderio.
La liricità della sua opera e la peculiarità del suo messaggio sta proprio nell’invito al superamento della “soglia”, del limite. Una sorta di spostamento da uno spazio ad un altro, da una forma di esistenza ad un’altra. Il senso e il significato di una porta lasciata aperta, di uno spiraglio di luce intravisto, di una luce oltre il confine, di un “occhio” attraverso cui penetra la luce sono segno di un “attraversamento”, o meglio di un “superamento”, un andare oltre, attraverso e contro divieti, negazioni e barriere che trova fondamento anche nel messaggio politico della gioventù americana degli anni’60.
Nulla è predefinito e determinato; tutto può avere connotazioni differenti, una vasta gamma di possibilità rappresentata dalla vasta gamma di colorazione che sebbene sui medesimi toni, ne contiene infiniti come infinite sono le nuances della vita.
Lodato è e rimane un “ragazzo” californiano della generazione dei mitici “sixties” , il cui anelito di libertà non potrà mai essere soffocato da nulla e da nessuno.
Bibliography:
(*) Michael Zakian: Selected wprks,1980-2000. Frederick Weisman Museum of Art
Jan Butterfield: The art of Light and Space 1996, Abbeville Press
Robin Clark : Phenomenal: California Light, Space, Surface. UC Press
Eva Keller: Brice Marden at Daros
Xavier Hufkens: Voir Double, travail in situ. Catalog Daniel Buren 2009
Klaus Wolbert: L’universo geometric di Marco Tirelli. Ed. Charta
Robert Irwin : Interwiev to the artist