Io sono la Porta

 

 

di Emanuele Leone Emblema – Curatore

 

 

“Accosteremo una rappresentazione egizia della porta del Sole, che l’astro stesso custodisce, all’immagine del Pantokrator nell’oculo della cupola Bizantina, motivando che tali aditi spalancati sul cosmo, corrispondono al foro attraverso cui l’indiano americano entra ed esce dal suo hogan, identico al foro nel centro del pi cinese, a quello della yurta degli sciamani siberiani, o infine all’apertura posta nel tetto al di sopra dell’ara di Giove Termino; e chiariremo che l’elemento comune a quelle costruzioni serviva a ricordare il dio-Soglia, colui che poté dire Io sono la Porta”

A.K. Coomaraswamy  da “Perché esporre le opere d’arte”1941

 

Che la pittura, cioè quell’umana pulsione a disegnare sui muri, sia un po’ come il tentativo di aprire una porta simbolica verso altri luoghi, è un idea abbastanza antica. Non a caso l’Icona Bizantina, il prototipo del quadro come oggi comunemente lo intendiamo, aveva tra i suoi tanti nomi quello di “Porta Regale” (P.Florenskij). Tuttavia, se il quadro è una Porta, è certamente una porta assai strana. Perché non dà accesso a nulla, se non a se stessa. In altre parole:  il quadro è sì la porta ma  è anche la sola stanza a cui essa conduce. Situazione ontologica questa, che non è proprio facile a realizzarsi.  Poiché  una Porta, generalmente, è l’opposto di una Stanza.

E’ su questo principio di opposti. Su questo rapporto tra linea architettonica e sua negazione, tra piano pittorico e tensione prospettica, che si basa buona parte del lavoro di Peter Lodato. L’artista Angeleeno rappresenta un’interessante confluenza di sensibilità, nel panorama dell’arte Californiana dalla fine degli Anni ’60 ad oggi. Ha recepito in eguale misura l’umanesimo lirico del Beato Angelico e la ritualità estenuante della pittura Zen. L’impostazione frontale dell’avanguardia americana e le scaltre impalcature della tradizione europea. Coniugando un percorso produttivo eminentemente pittorico con una costante attenzione per lo spazio ambientale ed architettonico. Anzi, fondendo a tal punto la pittura con alcuni esiti scultorei, che risulta impossibile comprendere l’una senza la conoscenza degli altri.

Sullo specifico dei concetti di Porta e di Stanza è lo stesso Peter Lodato ad affermare:

“… L’ immagine ricorrente dei miei dipinti era di una stanza vuota, senza soffitto e  con due porte … Questi dipinti non erano destinati però ad essere rappresentativi di una stanza, di una camera.  Ma dovevano riuscire a creare le stesse esperienze percettive del trovarsi lì …”

Questa immagine ricorrente, però, non è solo un arbitrio personale dell’artista. Ma più probabilmente un fattore connaturato all’essenza stessa della Pittura ed alla sua evoluzione. E per rendersi conto di quanto radicale per la storia dell’arte, possa rivelarsi la questione della Porta e del Luogo a cui essa conduce, si può tentare un esperimento. Un po’ empirico, ma tutto sommato suggestivo.

Prendiamo La tavola dello Sposalizio della Vergine di Raffaello. Una delle immagini più canoniche del Rinascimento. Tralasciando con lo sguardo i personaggi in primo piano, concentriamo l’attenzione sulla porta dell’edificio che è sullo sfondo; che poi è anche il punto di fuga di tutte le direttrici prospettiche. In quel punto preciso, in quel centro goniometrico del dipinto, c’è un qualcosa che a, a pensarci bene, con la pittura del rinascimento c’entra davvero poco. Un qualcosa che sembra riguardare più da vicino la ricerca di Turner, di Fautrier, di Rothko, di Newman, o le suggestioni ambientali dei Light and Space Californiani. Un qualcosa che se ne sta lì, in mezzo alla Porta, in attesa di essere focalizzato e progressivamente portato in primo piano. Una intuizione visiva che, in qualche maniera, disegna il perimetro stesso della Pittura. Di tutta la Pittura.

E’ la tensione tra lo spazio infinito dell’orizzonte e la necessità dell’artista di contrarre quella visione quasi trascendente, in una forma umanamente concepibile. Il tentativo di condensarla entro i due stipiti di una Porta. Di catturarla in quella trappola rettangolare che per comodità linguistica, ci siamo abituati a chiamare quadro.

Naturalmente  questo esperimento è poco più che un gioco. Sul piano filologico non conta nulla. Quello che conta però (e che aiuta a chiarire il profondo rapporto nel lavoro di Lodato, tra immagine ed architettura) è che la Pittura ha sempre basato la propria esistenza su un presupposto di tipo edilizio. E’ dai tempi dei graffiti di Altamira e Lascaux, passando per i mosaici bizantini ed i grandi  affreschi del ‘400 italiano, che l’immagine pittorica  per darsi compiutamente,  ha avuto bisogno di una stanza, di un muro su cui realizzarsi. L’icona, la pala d’altare ed infine il quadro, hanno rappresentato una progressiva emancipazione della Pittura dal contesto ambientale. Ma più si discostava dalla parete, più la Pittura iniziava a regolamentarsi al suo interno, con leggi ed atteggiamenti tipicamente architettonici. Il quadro prendeva a riconoscere se stesso come ambiente. E si iniziava così a costruire lo spazio illusorio, secondo regole  di geometria e matematica, come se davvero si dovesse superare un esame di tenuta strutturale. Le scene dipinte andavano popolandosi di archi, piazze, ed ogni tipo di elemento urbanistico. Ed anche quando la teoria prospettica perdeva di rigidità e si eliminavano i chiari  riferimenti architettonici, i concetti di Stanza e di Porta continuavano ad emergere in via negativa. Si riproponevano come luci forzose provenienti da porte lasciate aperte, ma poste fuori dalla scena (Caravaggio). Come effetti percettivi e proiezioni d’ombra (Rembrandt, de La Tour e fino agli Impressionisti). O come materiali da costruzione (praticamente come questione edilizia) nei gessi, nei cementi e nelle pietre cari all’avanguardia informale.

Peter Lodato in  quarant’anni di carriera ha lavorato praticamente allo stesso modo. Partendo prima dall’analisi delle leggi e delle forme dello spazio reale e progressivamente riconoscendo al quadro la possibilità di essere esso stesso un ambiente: un’architettura. Dalle operazioni ambientali degli anni ’70 ai dipinti ed alle sculture della sua produzione successiva, Lodato non ha cambiato né obbiettivo di ricerca e né modalità espressiva. Semplicemente, ha sostituito le leggi della gravità newtoniana con le normative della luce e del colore. Ha tradotto la “Dimensione” in “Proporzione”. Levigato la profondità prospettica fino a restituirla come  variazione di ritmo e di simmetria. Ed ha, infine, riversato le ragioni della solidità strutturale, in un principio, tutto pittorico, di equilibrio formale.  Nel corso di questo costante lavoro di riduzione però, Lodato ha avvertito distintamente, anche il rischio di tramutare la pittura in disegno tecnico. E per ovviare a questa eventualità ha inserito nell’impalcatura dell’opera, un fattore profondamente emotivo. Un fattore  grazie al quale è riuscito ad immunizzare i suoi lavori dal gelido rigore della planimetria.

E dal momento che l’esperienza emotiva è stata inserita nell’equazione -come se fosse un vero e proprio elemento strutturale dell’opera- il quadro è riuscito a chiarire finalmente, anche la sua più intima natura. Risolvendo, in buona parte, quel paradosso ontologico che abbiamo rilevato all’inizio: quello di essere una Porta che conduce sempre e solo a se stessa.

Il quadro, in questo senso,  è sì una Porta. Ma una porta che stiamo guardando già dall’interno. Cioè da quella stanza simbolica in cui chiediamo di essere condotti.  Alla Pittura perciò, non è assegnato il compito di trasportare l’osservatore in un ipotetico altrove. Ma il dovere di manifestare quell’ altrove nello spazio quotidiano che già esiste e dove l’uomo già spende la sua esistenza. Il quadro in qualche modo, dopo aver passato secoli a cercare di discostarsi dal muro, alla fine, al muro ci è dovuto ritornare.  Ma non più sotto forma di decorazione ed ornato, ma come elemento costruttivo. Non come possibilità di evasione,  ma come una specie di architettura nomadica,  che ha il potere di appropriarsi dello spazio con cui di volta in volta viene a contatto. Ed in virtù della propria massa emotiva, il quadro non solo prende possesso dell’ambiente, ma lo modifica: lo modella a propria immagine e somiglianza. Un po’ come fanno i corpi celesti, che per il proprio stesso peso riescono a distorcere l’universo  intorno a loro.