A – IMMATERIAL SPACES
di Cynthia Penna
La metà della bellezza dipende dal paesaggio e l’altra metà dall’uomo che la guarda.(Lin Yu Tang)
Paesaggio, ancora paesaggio. Tutta la storia dell’arte, ma anche l’intera storia dell’umanità è intrisa di paesaggio. La stessa composizione artistica che sia su tela, che sia scultura,o installazione o fotografia è in se stessa paesaggio. Anche la musica è paesaggio.
La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede. (Leonardo da Vinci 1452-1519).
Per Leonardo il paesaggio contiene significati reconditi e nascosti; è una forma di comunicazione accessibile solo a chi è in grado di comprenderne il significato.
Per gli Impressionisti il paesaggio è il momento magico di disvelamento della Natura.
Per i Futuristi è velocità, progresso, movimento, potenza dell’uomo.
Per i Cinetici è luce e movimento.
Per l’astrattismo geometrico è paesaggio razionale, mappatura di regole scientifiche.
Per l’Informale è gestualità, espressione fisica del contatto con la materia.
Questi esempi di “arte del paesaggio” stanno a significare che paesaggio è “TUTTO”.
La nostra mente e il nostro corpo sono paesaggio; la mappatura del nostro DNA è paesaggio, così come l’atomo nella sua composizione, i virus, i batteri, insomma l’origine della vita è paesaggio.
Paesaggio è la parte irrazionale di noi stessi ed è anche tutto quello che percepiamo con i nostri sensi: la nostra stessa percezione sensoriale (olfattiva, visiva, tattile …); ma anche una proiezione dell’anima e della nostra immaginazione.
L’Arte stessa, in sé, non è altro che un paesaggio dell’anima riversato in un manufatto.
Anche l’arte “concettuale” non fa altro che produrre “paesaggi” per esprimere concetti e svelare l’anima. L’architettura è paesaggio non solo e non tanto perché crea manufatti, ma soprattutto è paesaggio in sé, cioè quell’insieme di regole matematiche, linee, forme che creano bellezza.
La filosofia è paesaggio della mente e dell’anima.
“Immaterial spaces” è quella irrefrenabile esigenza di oscillazione tra spazio fisico e mentale connaturata all’uomo; qualcosa di estremo e nel contempo reale e “naturale” tale da diventare ineludibile nella vita di ogni essere umano.
“Immaterial spaces” come ricerca di quella sottile linea di demarcazione tra sogno e illusione, tra luogo del fantastico e luogo del reale, un volare “alto” per non farsi catturare l’anima da qualsiasi forma di assoggettamento. E così il prigioniero fisico evade nel fantastico, il folle diventa saggio; ma dov’è il borderline tra saggezza e follia? Non è la follia una forma di fantasia prolungata? Un sogno diventato realtà solo per colui che lo vuole prolungare?
Paesaggio non è solo “panorama”del reale , bensì quello che immaginiamo, quello che sogniamo ……
C’è forse più nella mente umana di paesaggio immaginario che reale.
Spazio di serenità circondato da un’aura di trascendenza. Spazio silente, vuoto come spazialità infinita. Senso di infinitezza. Spazi carichi di tensione meditativa e di trascendenza.
Le opere di Lita Albuquerque, Laddie John Dill e Andy Moses sono spazi di infinitezza assoluta.
Opere che inducono a più salienti riflessioni sull’esistenza.
Opere che immergono nel silenzio, vivono di silenzio. Silenzio non in quanto assenza di significato, ma come riflessione trascendentale, come momento meditativo.
Spazio come diaframma temporale, pausa; “pausylipon” ovvero “pausa dal dolore”. Momento in cui l’arte non è più modo del fare, modo dell’agire, ma momento di ricezione; ricezione anche mistica non in quanto misticismo religioso, bensì quale riflessione sull’essere.
Ricezione di immagini dal profondo dell’io, atti di esplorazione del sé. Paesaggi della mente.
Territori inesplorati del sé che attendono di essere conosciuti attraverso l’intrapresa di un viaggio all’interno di se stessi.
Sono, queste opere, tra le più salienti riflessioni sull’esistenza contemporanea. Il “chi siamo”, “dove andiamo”, reso reale, oggettivizzato attraverso la costruzione di opere cariche di materia, e di colore.
Il lavoro dei tre artisti corrisponde a tre modi di approccio al paesaggio come fatto pittorico e come fatto mentale.
Alcune opere della Albuquerque e in particolare i “red pigment painting” rimandano irrimediabilmente alle origini della creazione: i suoi “blows of artists” in cui pigmento naturale rosso viene spruzzato sulla tela dal “soffio” dell’artista non è altro che la riproduzione della tematica biblica del “soffio” creativo che dette origine al tutto. E nel contempo è anche eruzione vulcanica, esplosione di fuoco che origina l’universo. Oppure nella sua installazione “Stellar Axis” il rimando immediato è all’era della glaciazione da cui pure è sorta e si è sviluppata la vita. Ma non è tutto: la sua installazione riproduce, con le sfere blu appoggiate sul ghiaccio, esattamente le stelle esistenti nella volta celeste dell’Antartide, nel segno di un rapporto con l’Universo intero che non è personale, ma appartiene ad ogni essere umano come parte del tutto.
Una Land artist che persegue da sempre il suo scopo di salvaguardia della Natura come unico mezzo di sopravvivenza dell’uomo. Il rapporto della Albuquerque con l’elemento naturale è immediato, istintivo e fortissimo. Forse tutta la sua vita è stata dedicata a questo rapporto non solo nelle gigantesche installazioni dell’Antartide o della Giza del Cairo, ma anche in altre opere dove la ricerca è incentrata sul rapporto spaziale tra centro e periferia come in “gold leaf untitled” dove l’elemento centripeto della sfera scavata nel supporto così centralizzata da essere centripeta delle forze periferiche, rende l’idea di una volontà espressa di concentrazione di pura energia in un nucleo centrale.
Non a caso la forma rotonda contenuta in un quadrato rafforza questo concetto rendendo visivamente, in maniera magistrale, l’idea di una concentrazione di energia all’interno di un nucleo centrale che è di volta in volta atomo o spirito, corporeità, fisicità e spiritualità. L’artista si cimenta in questo rapporto spaziale fatto di equilibrio geometrico/matematico ottenendo l’effetto estetico ed emozionale attraverso una gestione perfetta del colore e della rifrazione della luce sull’opera. La scelta di due soli elementi geometrici e la scelta di due soli colori, tra cui spesso c’è l’oro, serve a rafforzare il concetto di un rapporto di base tra scientificità ed emozionalità.
Le opere inoltre appaiono essere inondate di luce a causa della rifrazione della luce sui pigmenti di colore, esasperando la sensazione visiva di concentrazione del visus su un nucleo centrale che irradia la sua potenza e la sua energia verso l’esterno. In chiave simbolica vi è tutta la riproduzione dell’evento della creazione.
Sia Dill che Moses procedono nella loro creazione artistica per stratificazione di materia: è il medesimo processo della Natura che crea se stessa: per stratificazione di livelli magmatici. Pensiamo alle eruzioni e alle stratificazioni della crosta terrestre. Allo stesso modo Dill usa il cemento e il vetro in sovrapposizione o in adesione in modo da creare un’opera intrisa di movimento e colore; un “paesaggio”fatto con materiali derivanti da prodotti naturali che vengono manipolati dall’uomo.
Il cemento impastato e ridotto ad una sorta di liquido, viene gettato sul supporto ligneo e viene “condotto” dalla mano dell’artista ad “atteggiarsi” o ad assumere una specifica forma e solo quella.
Nulla viene lasciato al caso; l’arte di Dill è solo ispirata dall’action painting di Pollock, ma si distacca dall’espressionismo astratto per l’assenza di casualità del gesto. Si tratta piuttosto di una “casualità controllata , orientata”. Resta identica la posizione dell’artista rispetto al supporto che viene steso a terra e dominato dall’alto; la materia viene colata dall’alto, il supporto viene mosso con manualità magistrale, tale da permettere alla materia di posizionarsi esattamente in una specifica e precisa posizione determinata dall’artista.
Lo spazio o il campo pittorico, viene inizialmente sezionato e organizzato per assumere quella specifica forma che dovrà produrre un determinato effetto pittorico visivo e non altra; da un geometrismo basico, attraverso lo stemperamento della materia fluida sul supporto, si giunge ad una manipolazione della stessa tale da indurla, forzarla verso una specifica forma e non altra; forma che dovrà produrre a sua volta uno specifico effetto visivo.
Una sorta di effetto “pioggia” presente in alcune opere, o quello di lava vulcanica in movimento, sono dovuti ad un eccellente dominio della materia cementizia nel suo stato semi-fluido e nella magistrale manipolazione del supporto.
La presenza del vetro e, piuttosto, la scelta di fondere nella medesima opera due materiali tanto diversi come cemento e vetro, sono la chiave di volta del lirismo di Dill.
Anzitutto il punto di innesto dei due materiali sfugge alla percezione visiva dell’opera; i margini di fusione tra i due materiali, pur essendo netti e
definiti, non si percepiscono nei loro innesti. Inoltre la scelta di un materiale opaco che dialoga con uno luminescente e riflettente come il vetro serve a Dill per inserire l’elemento luce nell’opera che è un tema su cui si è da sempre sviluppata e orientata la ricerca dell’artista.
Dill, ricordiamolo, ha iniziato la sua carriera d’artista lavorando sui Neon alla stregua di Dan Flavin.
Orbene, l’opera di Dill si forma su alcuni elementi ben determinati e va letta in tal senso: 1) la combinazione di linee geometriche che determinano la divisione dello spazio pittorico e la sua organizzazione a “sistema”;
2) la colatura di cemento che conferisce movimento all’opera (sia esso “a pioggia”, o ondulatorio);
3) l’inserimento del materiale vetroso che non è formato da spezzoni di vetro rotto a caso, ma trattasi di pezzi di materiale vitreo lavorati in specifiche forme, e che serve ad innestare l’elemento “luce” o di “iridescenza” nell’opera.
La percezione visiva risultante dalla combinazione di questi elementi, è una visione straniante e disorientante, sebbene ordinata e “calma”. Inoltre la visione diventa tridimensionale in quanto le due componenti e soprattutto l’elemento del vetro e con esso della luce, offrono un senso di profondità che invita ad addentrarsi anche fisicamente nell’opera per scoprire cosa c’è al fondo.
Tale percezione visiva conduce ad un’altra “necessità” per il lettore: quella tattile; un’esigenza immediata e irrefrenabile di “toccare” l’opera per verificare dove arriva e dove porta quella profondità di visione.
Quasi una lettura in Brail dell’opera , una esigenza tattile identica a quella del bambino alla scoperta della realtà che lo circonda.
Infine il lirismo e la poetica che trascende ogni dato materiale, ogni lettura tecnica dell’opera: il lirismo del colore che dà finalmente il senso di sconfinamento in una realtà “altra” nella quale immergersi e da essa farsi circondare e alla quale abbandonarsi. L’universalità dell’opera deriva dalla capacità di suscitare un’emozione di fronte ad essa che è sempre la medesima attraverso generazioni di letture e di lettori.
Anche Moses procede per stratificazione di materia, ma la sua materia è solo acrilico e pigmento.
Moses procede per colatura di colore dall’alto con il supporto steso a terra e quindi dominato da posizione sopraelevata. La materia di colore fluido viene gettata sul supporto in modo da essere stratificata; successivamente il supporto viene mosso da destra verso sinistra e viceversa, alzato e abbassato continuamente in modo tale che i fluidi di colore si fondano tra loro, ma solo con determinate caratteristiche e con certi effetti voluti dall’artista. La assoluta precisione del movimento dell’artista conferisce il movimento all’intera opera che appare alla fine non solo un paesaggio reale, ma una visione satellitare della crosta terrestre.
La tecnica maniacale ed esasperata di Moses, contiene in sé una poetica altissima che permea di sé l’opera conferendole un enorme lirismo che è la chiave di lettura di tutta la ricerca dell’artista.
Le ombreggiature e la luminosità che tutte le opere presentano alla visione in maniera così evidente, sono date dal preciso posizionamento dei colori e dalla precisione del movimento che l’artista conferisce al supporto. Una tecnica mirabile acquisita dopo anni di sperimentazioni sul campo.
Il paesaggio di Moses è pura poesia; la spazialità ingigantita dalla sensazione di visione dall’alto; un paesaggio di una Terra serena, un’atmosfera rarefatta e perfetta, il silenzio carico di emozione, la luce che inonda un mondo primordiale e deserto, ma pieno di vita, anzi un mondo che sembra muoversi sotto gli occhi dello spettatore e modificarsi continuamente. Movimento “calmo” che accompagna la visione.
Un mondo di “abbandono” non come neglettitudine, ma come il lasciarsi andare alla riflessione. Spazi di distensione visiva, luoghi di decompressione mentale; luoghi di benessere dell’immaginazione, di benessere del pensiero.
Paesaggio e …… oltre, Immaterial Spaces: l’augurio che l’Arte auspica di un mondo migliore.
La metà della bellezza dipende dal paesaggio e l’altra metà dall’uomo che la guarda.(Lin Yu Tang)
Paesaggio, ancora paesaggio. Tutta la storia dell’arte, ma anche l’intera storia dell’umanità è intrisa di paesaggio. La stessa composizione artistica che sia su tela, che sia scultura,o installazione o fotografia è in se stessa paesaggio. Anche la musica è paesaggio.
La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede. (Leonardo da Vinci 1452-1519).
Per Leonardo il paesaggio contiene significati reconditi e nascosti; è una forma di comunicazione accessibile solo a chi è in grado di comprenderne il significato.
Per gli Impressionisti il paesaggio è il momento magico di disvelamento della Natura.
Per i Futuristi è velocità, progresso, movimento, potenza dell’uomo.
Per i Cinetici è luce e movimento.
Per l’astrattismo geometrico è paesaggio razionale, mappatura di regole scientifiche.
Per l’Informale è gestualità, espressione fisica del contatto con la materia.
Questi esempi di “arte del paesaggio” stanno a significare che paesaggio è “TUTTO”.
La nostra mente e il nostro corpo sono paesaggio; la mappatura del nostro DNA è paesaggio, così come l’atomo nella sua composizione, i virus, i batteri, insomma l’origine della vita èpaesaggio.
Paesaggio è la parte irrazionale di noi stessi ed è anche tutto quello che percepiamo con i nostri sensi: la nostra stessa percezione sensoriale (olfattiva, visiva, tattile …); ma anche una proiezione dell’anima e della nostra immaginazione.
L’Arte stessa, in sé, non è altro che un paesaggio dell’anima riversato in un manufatto.
Anche l’arte “concettuale” non fa altro che produrre “paesaggi” per esprimere concetti e svelare l’anima. L’architettura è paesaggio non solo e non tanto perché crea manufatti, ma soprattutto è paesaggio in sé, cioè quell’insieme di regole matematiche, linee, forme che creano bellezza.
La filosofia è paesaggio della mente e dell’anima.
“Immaterial spaces” è quella irrefrenabile esigenza di oscillazione tra spazio fisico e mentale connaturata all’uomo; qualcosa di estremo e nel contempo reale e “naturale” tale da diventare ineludibile nella vita di ogni essere umano.
“Immaterial spaces” come ricerca di quella sottile linea di demarcazione tra sogno e illusione, tra luogo del fantastico e luogo del reale, un volare “alto” per non farsi catturare l’anima da qualsiasi forma di assoggettamento. E così il prigioniero fisico evade nel fantastico, il folle diventa saggio; ma dov’è il borderline tra saggezza e follia? Non è la follia una forma di fantasia prolungata? Un sogno diventato realtà solo per colui che lo vuole prolungare?
Paesaggio non è solo “panorama”del reale , bensì quello che immaginiamo, quello che sogniamo ……
C’è forse più nella mente umana di paesaggio immaginario che reale.
Spazio di serenità circondato da un’aura di trascendenza. Spazio silente, vuoto come spazialità infinita. Senso di infinitezza. Spazi carichi di tensione meditativa e di trascendenza.
Le opere di Lita Albuquerque, Laddie John Dill e Andy Moses sono spazi di infinitezza assoluta.
Opere che inducono a più salienti riflessioni sull’esistenza.
Opere che immergono nel silenzio, vivono di silenzio. Silenzio non in quanto assenza di significato, ma come riflessione trascendentale, come momento meditativo.
Spazio come diaframma temporale, pausa; “pausylipon” ovvero “pausa dal dolore”. Momento in cui l’arte non è più modo del fare, modo dell’agire, ma momento di ricezione; ricezione anche mistica non in quanto misticismo religioso, bensì quale riflessione sull’essere.
Ricezione di immagini dal profondo dell’io, atti di esplorazione del sé. Paesaggi della mente.
Territori inesplorati del sé che attendono di essere conosciuti attraverso l’intrapresa di un viaggio all’interno di se stessi.
Sono, queste opere, tra le più salienti riflessioni sull’esistenza contemporanea. Il “chi siamo”, “dove andiamo”, reso reale, oggettivizzato attraverso la costruzione di opere cariche di materia, e di colore.
Il lavoro dei tre artisti corrisponde a tre modi di approccio al paesaggio come fatto pittorico e come fatto mentale.
Alcune opere della Albuquerque e in particolare i “red pigment painting” rimandano irrimediabilmente alle origini della creazione: i suoi “blows of artists” in cui pigmento naturale rosso viene spruzzato sulla tela dal “soffio” dell’artista non è altro che la riproduzione della tematica biblica del “soffio” creativo che dette origine al tutto. E nel contempo è anche eruzione vulcanica, esplosione di fuoco che origina l’universo. Oppure nella sua installazione “Stellar Axis” il rimando immediato è all’era della glaciazione da cui pure è sorta e si è sviluppata la vita. Ma non è tutto: la sua installazione riproduce, con le sfere blu appoggiate sul ghiaccio, esattamente le stelle esistenti nella volta celeste dell’Antartide, nel segno di un rapporto con l’Universo intero che non è personale, ma appartiene ad ogni essere umano come parte del tutto.
Una Land artist che persegue da sempre il suo scopo di salvaguardia della Natura come unico mezzo di sopravvivenza dell’uomo. Il rapporto della Albuquerque con l’elemento naturale è immediato, istintivo e fortissimo. Forse tutta la sua vita è stata dedicata a questo rapporto non solo nelle gigantesche installazioni dell’Antartide o della Giza del Cairo, ma anche in altre opere dove la ricerca è incentrata sul rapporto spaziale tra centro e periferia come in “gold leaf untitled” dove l’elemento centripeto della sfera scavata nel supporto così centralizzata da essere centripeta delle forze periferiche, rende l’idea di una volontà espressa di concentrazione di pura energia in un nucleo centrale.
Non a caso la forma rotonda contenuta in un quadrato rafforza questo concetto rendendo visivamente, in maniera magistrale, l’idea di una concentrazione di energia all’interno di un nucleo centrale che è di volta in volta atomo o spirito, corporeità, fisicità e spiritualità. L’artista si cimenta in questo rapporto spaziale fatto di equilibrio geometrico/matematico ottenendo l’effetto estetico ed emozionale attraverso una gestione perfetta del colore e della rifrazione della luce sull’opera. La scelta di due soli elementi geometrici e la scelta di due soli colori, tra cui spesso c’è l’oro, serve a rafforzare il concetto di un rapporto di base tra scientificità ed emozionalità.
Le opere inoltre appaiono essere inondate di luce a causa della rifrazione della luce sui pigmenti di colore, esasperando la sensazione visiva di concentrazione del visus su un nucleo centrale che irradia la sua potenza e la sua energia verso l’esterno. In chiave simbolica vi è tutta la riproduzione dell’evento della creazione.
Sia Dill che Moses procedono nella loro creazione artistica per stratificazione di materia: è il medesimo processo della Natura che crea se stessa: per stratificazione di livelli magmatici. Pensiamo alle eruzioni e alle stratificazioni della crosta terrestre. Allo stesso modo Dill usa il cemento e il vetro in sovrapposizione o in adesione in modo da creare un’opera intrisa di movimento e colore; un “paesaggio”fatto con materiali derivanti da prodotti naturali che vengono manipolati dall’uomo.
Il cemento impastato e ridotto ad una sorta di liquido, viene gettato sul supporto ligneo e viene “condotto” dalla mano dell’artista ad “atteggiarsi” o ad assumere una specifica forma e solo quella.
Nulla viene lasciato al caso; l’arte di Dill è solo ispirata dall’action painting di Pollock, ma si distacca dall’espressionismo astratto per l’assenza di casualità del gesto. Si tratta piuttosto di una “casualità controllata , orientata”. Resta identica la posizione dell’artista rispetto al supporto che viene steso a terra e dominato dall’alto; la materia viene colata dall’alto, il supporto viene mosso con manualità magistrale, tale da permettere alla materia di posizionarsi esattamente in una specifica e precisa posizione determinata dall’artista.
Lo spazio o il campo pittorico, viene inizialmente sezionato e organizzato per assumere quella specifica forma che dovrà produrre un determinato effetto pittorico visivo e non altra; da un geometrismo basico, attraverso lo stemperamento della materia fluida sul supporto, si giunge ad una manipolazione della stessa tale da indurla, forzarla verso una specifica forma e non altra; forma che dovrà produrre a sua volta uno specifico effetto visivo.
Una sorta di effetto “pioggia” presente in alcune opere, o quello di lava vulcanica in movimento, sono dovuti ad un eccellente dominio della materia cementizia nel suo stato semi-fluido e nella magistrale manipolazione del supporto.
La presenza del vetro e, piuttosto, la scelta di fondere nella medesima opera due materiali tanto diversi come cemento e vetro, sono la chiave di volta del lirismo di Dill.
Anzitutto il punto di innesto dei due materiali sfugge alla percezione visiva dell’opera; i margini di fusione tra i due materiali, pur essendo netti e
definiti, non si percepiscono nei loro innesti. Inoltre la scelta di un materiale opaco che dialoga con uno luminescente e riflettente come il vetro serve a Dill per inserire l’elemento luce nell’opera che è un tema su cui si è da sempre sviluppata e orientata la ricerca dell’artista.
Dill, ricordiamolo, ha iniziato la sua carriera d’artista lavorando sui Neon alla stregua di Dan Flavin.
Orbene, l’opera di Dill si forma su alcuni elementi ben determinati e va letta in tal senso: 1) la combinazione di linee geometriche che determinano la divisione dello spazio pittorico e la sua organizzazione a “sistema”;
2) la colatura di cemento che conferisce movimento all’opera (sia esso “a pioggia”, o ondulatorio);
3) l’inserimento del materiale vetroso che non è formato da spezzoni di vetro rotto a caso, ma trattasi di pezzi di materiale vitreo lavorati in specifiche forme, e che serve ad innestare l’elemento “luce” o di “iridescenza” nell’opera.
La percezione visiva risultante dalla combinazione di questi elementi, è una visione straniante e disorientante, sebbene ordinata e “calma”. Inoltre la visione diventa tridimensionale in quanto le due componenti e soprattutto l’elemento del vetro e con esso della luce, offrono un senso di profondità che invita ad addentrarsi anche fisicamente nell’opera per scoprire cosa c’è al fondo.
Tale percezione visiva conduce ad un’altra “necessità” per il lettore: quella tattile; un’esigenza immediata e irrefrenabile di “toccare” l’opera per verificare dove arriva e dove porta quella profondità di visione.
Quasi una lettura in Brail dell’opera , una esigenza tattile identica a quella del bambino alla scoperta della realtà che lo circonda.
Infine il lirismo e la poetica che trascende ogni dato materiale, ogni lettura tecnica dell’opera: il lirismo del colore che dà finalmente il senso di sconfinamento in una realtà “altra” nella quale immergersi e da essa farsi circondare e alla quale abbandonarsi. L’universalità dell’opera deriva dalla capacità di suscitare un’emozione di fronte ad essa che è sempre la medesima attraverso generazioni di letture e di lettori.
Anche Moses procede per stratificazione di materia, ma la sua materia è solo acrilico e pigmento.
Moses procede per colatura di colore dall’alto con il supporto steso a terra e quindi dominato da posizione sopraelevata. La materia di colore fluido viene gettata sul supporto in modo da essere stratificata; successivamente il supporto viene mosso da destra verso sinistra e viceversa, alzato e abbassato continuamente in modo tale che i fluidi di colore si fondano tra loro, ma solo con determinate caratteristiche e con certi effetti voluti dall’artista. La assoluta precisione del movimento dell’artista conferisce il movimento all’intera opera che appare alla fine non solo un paesaggio reale, ma una visione satellitare della crosta terrestre.
La tecnica maniacale ed esasperata di Moses, contiene in sé una poetica altissima che permea di sé l’opera conferendole un enorme lirismo che è la chiave di lettura di tutta la ricerca dell’artista.
Le ombreggiature e la luminosità che tutte le opere presentano alla visione in maniera così evidente, sono date dal preciso posizionamento dei colori e dalla precisione del movimento che l’artista conferisce al supporto. Una tecnica mirabile acquisita dopo anni di sperimentazioni sul campo.
Il paesaggio di Moses è pura poesia; la spazialità ingigantita dalla sensazione di visione dall’alto; un paesaggio di una Terra serena, un’atmosfera rarefatta e perfetta, il silenzio carico di emozione, la luce che inonda un mondo primordiale e deserto, ma pieno di vita, anzi un mondo che sembra muoversi sotto gli occhi dello spettatore e modificarsi continuamente. Movimento “calmo” che accompagna la visione.
Un mondo di “abbandono” non come neglettitudine, ma come il lasciarsi andare alla riflessione. Spazi di distensione visiva, luoghi di decompressione mentale; luoghi di benessere dell’immaginazione, di benessere del pensiero.
Paesaggio e …… oltre, Immaterial Spaces: l’augurio che l’Arte auspica di un mondo migliore.