B – PINDARICHE CONNESSIONI

 

 

di Marco Di Mauro

 

 

Il fenomeno dell’ ‘arte fredda’, che azzera la manualità e lo stesso rapporto dell’artista con la materia, ha determinato una frattura nella storia dell’arte, finora percepita come un continuum che coinvolge passato, presente e futuro. Eppure molti artisti continuano a scolpire, a dipingere, a modellare con il calore delle proprie mani, rinnovando la sapienza dei maestri antichi alla luce di una sensibilità attuale. La presente mostra «Immaterial Spaces» vuole appunto dimostrare, attraverso pindariche connessioni tra opere d’arte moderna e contemporanea, che il filo della continuità resiste ancora. L’arte contemporanea è rappresentata dagli americani Lita Albuquerque, Andy Moses e Laddie John Dill, mentre l’arte dei secoli scorsi è rappresentata dai napoletani Camillo De Vito, Edoardo Monteforte e Luca Giordano.

 

A Lita Albuquerque è associata una gouache di Camillo De Vito (attivo a Napoli tra fine ’700 e metà ’800), raffigurante il Golfo di Napoli col Vesuvio eruttante. Nella veduta notturna si individuano gli elementi propri della gouache napoletana di ascendenza hackertiana: quel fare disteso, analitico, che tende alla rappresentazione classica del paesaggio, eppure, nella sagace modulazione dei colori, riesce ad esprimere una poetica sensibilità. La stessa eruzione del Vesuvio non suscita terrore, ma affascina i pescatori, che continuano a operare nella quiete, senza concitazione, in un’atmosfera idealizzante che annulla lo sforzo fisico e la lotta per la sopravvivenza. Al contempo, la visione del magma incandescente offre lo spunto per una meditazione sul sublime, quale viene percepito nella cultura europea del ’700. Il sublime neoclassico non è quello romantico delle catastrofi ossianesche, che suscitano angoscia e orrore, ma è piuttosto «il passo sicuro di Apollo che scende tremendo e sereno», come tremenda e serena appare l’eruzione del Vesuvio.

Nell’opera di Lita Albuquerque, invece, l’eruzione è l’energia che vivifica il mondo, la fiamma che arde in ognuno di noi. E la nostra memoria corre alla serieVesuvius di Andy Warhol, in cui la violenza eruttiva non è più veicolo di morte, ma eccitata rappresentazione dell’energia e degli umori del popolo napoletano.

A Andy Moses è associato un olio di Edoardo Monteforte (Polla 1849 – Napoli 1933), raffigurante un Paesaggio agreste. Questa tela presenta una sobria composizione dalle tinte brune o rossastre, che da un lato denuncia l’interesse verista per il mondo rurale, comune all’arte e alla letteratura del XIX secolo, e da un altro esprime quel lirismo bucolico che a Napoli si era già manifestato nella pittura di Federico Rossano o dei fratelli Palizzi. A loro volta, questi pittori avevano soggiornato a Parigi, conoscendo dal vivo la tecnica innovativa di Courbet e della Scuola di Barbizon, che infondevano nel colore, indagato in tutte le variazioni tonali, un sentimento poetico della natura.

La composizione della tela di Monteforte è sostanzialmente classica: una masseria con gli annessi fabbricati rurali si pone come linea di demarcazione tra la distesa dei campi, che occupa la metà inferiore, e lo specchio celeste, che occupa la metà superiore.

Nell’opera di Andy Moses, invece, la percezione del paesaggio viene interiorizzata, mescolando i colori, diluendo le forme, azzerando i piani prospettici. Del paesaggio naturale non rimane che una vaga sensazione, alimentata dai colori bruni e terrosi che si lasciano permeare dalla luce.

A Laddie John Dill, infine, è associata la Morte di Adone di Luca Giordano (Napoli 1634-1705), affrescata nella galleria di Palazzo Medici Riccardi a Firenze. Il pittore napoletano ambienta la scena in un bosco rigoglioso, dove tre ninfe ritrovano il corpo di Adone, mentre Diana indica il cinghiale che l’ha ucciso. Il tema mitologico, che allude all’età dell’imprudenza e dell’amore, fa parte di un complesso programma iconografico, elaborato dall’accademico della Crusca Alessandro Segni, che rappresenta l’apoteosi della vita umana. Nell’affresco di Giordano si riscontrano i caratteri tipici della pittura barocca: la luce, il movimento, l’enfasi, la teatralità, la tendenza a dilatare lo spazio fino all’infinito. La freschezza dei colori, intrisi di una luce mediterranea, affonda le sue radici nella pittura veneta del ’500, in particolare nelle brillanti composizioni di Tiziano e Veronese, che Giordano poté ammirare durante il suo viaggio a Venezia nel 1667.

Anche Laddie John Dill intreccia superfici cangianti e fasci di luce, generando un vivo senso di movimento. L’artista, memore delle invenzioni cubiste e cubo-futuriste, riduce la molteplicità del reale ad un mosaico di schegge luminose, tenute insieme da una forza centripeta. Se cerchiamo il vero, l’essenza, il significante, troviamo che esso non risiede nella cosa in sé, ma nel movimento che vi è sotteso.