The traveling Canvas

 

 

di Patrizia de Mennato

 

 

Valorizzare un “discorso ad anelli” in The Traveling Canvas

 

Il particolarissimo progetto The Traveling Canvas, ideato e posto in essere da Cynthia Simonelli lungo un periodo di più di un anno, ha – a mio avviso – la sua radice più profonda nella realizzazione concreta di un discorso artistico sulla complessità. Tema a me molto caro e di non immediata comprensione, se non si mastica con naturalezza il rapporto tra i vincoli posti dal pensiero complesso e la sua contemporanea capacità di spaziare in terreni inusuali ed imprevedibili.

Cos’è un discorso artistico sulla complessità?

La complessità ha costituito e costituisce la sfida reale ad ogni forma di sapere tradizionale e trova compimento in particolar modo nelle arti visive, perché la complessità è prima di tutto “uno sguardo sulle cose” che è capace di costruire la realtà interpretandola come una “macchina non-banale” (von Foerster).  Questa affermazione respinge definitivamente l’illusione che lo sguardo possa essere indipendente dall’osservatore e che l’esecuzione di un progetto artistico possa essere solo una banale riproduzione della realtà. D’altronde lo stesso Walter Benjamin pose marcatamente in evidenza il tema dell’unicità dell’opera d’arte sottoposta a possibili repliche “nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”.  Quello che il soggetto osserva è, dunque, “irriducibile” perché singolare; perché definisce una porzione di realtà costruita a partire da uno spazio prospettico storico, locale, situato. È “l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova” che modifica l’oggetto conosciuto proprio in ragione della identità personale dell’artista.

L’opera d’arte è, dunque, il “proprio” mosaico di strutturazione neurobiologica della propria percezione, di tecnica, di sensibilità, di cultura.

È l’“azione” che l’artista compie sul proprio sapere prima che sulla tela. È una descrizione “virtuosamente” parziale che assume una valenza maledettamente pratica; riguarda il significato di sé stesso e del mondo, il sistema spesso implicito con cui tutti noi ordiniamo secondo gerarchie e priorità i nostri percorsi di senso. È il dare importanza alle cose e lo svilirle che guida la creazione artistica. Questo “gioco” maledettamente serio usa, infatti, le “idee” come pezzi di un mosaico e queste “idee” sono la parte di noi che entra nel gioco.

I pensieri, generando significati e “filosofie” personali, “creano” la realtà in cui viviamo ed hanno un’influenza decisiva sulla pratica.  Hanno il compito di filtrare il significato del mondo ponendolo in pratica nella creazione artistica.

Su questo snodo è costruito il progetto The Traveling Canvas, che “mette in relazione” (altro termine a fondamento del pensiero complesso) “persone” prima che artisti. Immette le loro identità nel gioco sottile e sotterraneo che teorie ingenue e le convinzioni culturali assumono nel governare la loro arte.  The Traveling Canvas ha richiesto l’accettazione di un fortissimo grado di condivisione, che ha vincolato i soggetti implicati nel completamento dell’opera finale e, insieme, ha permesso la valorizzazione dell’identità di ogni artista, ancorandolo alle sue scelte artistiche ed esistenziali.

L’«aura» singolare dell’opera d’arte, come la chiama Walter Benjamin, in questo caso diventa “collettiva”. La sincronia del tempo e dello spazio (gli artisti appartengono a diversi continenti ed intervengono sull’opera in tempi necessariamente sfalsati) è annullata in un “grande percorso” che accomuna gli artisti in una dimensione ad anello, dove il tornare indietro, l’accavallare, il rivisitare – a volte anche il sovrapporsi ed il coprire- definiscono un’orditura collettiva non più identificabile con l’identità del singolo artista.

«Sarebbe una vanità davvero ingenua, poiché abbiamo trovato un particolare cammino, pensare che questo debba essere l’unico cammino possibile e quindi “reale”», dice von Glasersfeld, altro significativo studioso della complessità. Pertanto, l’originalità del progetto è data proprio dalla forzosa rottura della linearità del percorso personale dell’artista, imponendogli di interromperlo prima del “proprio tempo” per sganciarsi da esso ed aprirsi ad interventi prodotti da un altro artista sulla propria opera “parziale” (altro termine così caro alla complessità). Il percorso che porta all’opera finale diventa, allora, inclusivo, viene creato dall’essere co-costruito in forma dialogica, ma di un dialogo “concreto” fatto di dimensioni stilistiche e narrative personali che avvengono in uno spazio/tempo concordato.

Le forme della produzione artistica narrano chi siamo e cosa sappiamo, quindi, assimilando la tensione e le differenze di ciascuno di noi. Tutte le nostre esperienze coinvolgono il nostro essere nella sua interezza. È virtualmente impossibile immaginare di avere un’esperienza che non implichi coinvolgimenti emozionali, morali ed estetici. Allora, è vero che la conoscenza che abbiamo di noi stessi è una conoscenza estetica ed “affettiva”.  Il rapporto tra gli autori testimonia un “rispondersi” in forma estetica.

L’itinerario artistico che si è voluto costruire richiama un percorso ad anelli. Percorso che, proprio in quanto tale, parte dall’esplicita scelta di «sfondo» messa in atto dal primo artista e segue attraverso la definizione dei passi successivi della costruzione, secondo un procedimento che permette di tornare indietro, elaborare, ri-esplicitare gli atti grafici precedenti. Nella composizione ad anello, il primo artista comincia la “sua narrazione” ed è costretto ad interrompersi per lasciar spazio al secondo, poi al terzo ed agli altri. Ciò permette di costruire percorsi non distinti in elementi separati, ma di concretizzarsi in un esito ologrammatico di individualità artistiche che dialogano tra loro.

Ogni artista si colloca – sempre e comunque – da una certa prospettiva. Vuol dire, cioè, che il significato attribuito alla traccia precedente non è neutrale né posto in assoluto ed in astratto, ma è rielaborato dalla prospettiva dell’artista e degli artisti che seguono. Ogni quadro, dunque, è la storia di una «visione» che si compone attraverso i «nessi» che le singolarità degli artisti integrano.  Un percorso ad anelli, dunque.

Tali evidenze concettuali appaiono in tutti i percorsi.  Confrontando il primo passo della costruzione con i passi successivi e con il quadro finale ritroviamo i momenti di accordo e congiunzione espressi sia in una narrazione senza strappi sia in negazioni e sovrapposizioni che rieditano il percorso precedente.

La testimonianza fotografica – indispensabile per la comprensione di tale discorso metodologico e del dialogo personalissimo tra gli autori – riesce a «dare conto» delle operazioni tecniche, estetiche e soprattutto riflessive che hanno prodotto quelle particolari costruzioni. Fornisce, cioè, un esempio concreto della interdipendenza che lega gli artisti. Questa operazione documentale mostra le relazioni, le gerarchie e le configurazioni in base alle quali gli artisti hanno prodotto le loro operazioni di revisione/interpretazione.  Il punto di vista e la scelta dei materiali utilizzati, i tratti grafici singolari danno la possibilità di avvicinarsi alle «attrezzature cognitive» profonde di ogni singolo artista. Ne risulta l’invito a prendere atto che l’osservazione sinottica dei passaggi di The Traveling Canvas delinea un percorso capace di «cogliere differenze» tra gli interventi pittorici, ma è anche di «fare» le differenze.

Ogni quadro dunque è un incontro/scontro tra logiche diverse, dove disordine ed ordine cooperano verso la costruzione definitiva del prodotto finale, includendo le tante “verità” degli artisti, ma anche accentuando il loro contrasto. Diventa, dunque, uno smontare e rimettere insieme, spesso combinati tra loro, dove un’idea di mondo si propone proprio per essere creata in una nuova e tutte quante, considerate complessivamente, forniscono indizi per comprendere non solo i singoli atti pittorici, ma anche quelle complesse operazioni che si profilano – in questo caso – come vere creazioni collettive

“Ogni nuova acquisizione rigenera il pensiero” dice Edgard Morin, e queste composizioni o scomposizioni portano ad evidenziare alcuni elementi della realtà a fronte di altri, in una costante modificazione dei rapporti fra le cose, in una ricerca di nuovi equilibri.  Gli artisti si trovano ad operare impostando i dati significativi della loro poetica separando, distinguendo, unendo, tratteggiando o appesantendo il tratto, rielaborano nel rispetto del nucleo essenziale della loro arte. Viene a costruirsi un’intricata foresta, complessa e policroma, dove l’astrazione prevale sul tratto figurativo a mano a mano nel corso della co-produzione – come in Mayer e Rodríguez – ed anche dove la dimensione figurativa trova una sua centralità – come in Vivarelli e Kinè.

 

Tuttavia, i tratti non si contraddicono, ma convivono e dialogano. Trovano il modo di coesistere in un prodotto ologrammatico.  Se il “tutto è nella parte che è nel tutto”, ogni opera finale include tutti i suoi autori senza che questi smarriscano la propria identità. Nel contempo li travalica perché li trasforma in quell’ “aura” collettiva incarnata, comunque, nell’unicità dell’esperienza artistica.

Questa “multicultural experience in terms of art” è centrata nel concetto di negoziazione dell’opera artistica all’interno di un incontro culturale.   Essa risulta un prodotto di costruzioni e ricostruzioni soggettive, costantemente a confronto con altri e, dice Paul Watzlawick, “con la vita stessa”.  Sistemi cognitivi, interazioni sociali e condizioni storiche producono lo scambio che noi chiamiamo cultura.  Un “filtro selettivo” che controlla e costruisce gli stimoli e fornisce una base per regolare il comportamento sociale, afferma Turner. Cosicché l’identità culturale si presenta come una complessa struttura cognitiva che media i significati del mondo in modo individuale. Utilizzando una metafora, la dimensione culturale definisce la «lente deformante» della nostra conoscenza attraverso la quale vedere il mondo, costruendo – di fatto – mondi diversi, specifici ed originali. La cultura crea, così, un suo spettro di priorità per nulla estranea e sovrapposta alla realtà dei «fatti», ma organicamente elaborata grazie ai sentimenti di appartenenza con i quali ci identifichiamo. Sembrerà blasfemo ma, «molto di ciò che occorre conoscere sulla società, sugli altri e su noi stessi può essere appreso solo di seconda mano», afferma Neisser.

Il progetto di produzione artistica The Traveling Canvas, tuttavia, fornisce l’esempio che la cultura non è un blocco monolitico che irrigidisce fanaticamente le proprie visioni del mondo, ma è un substrato fluido e permeabile con i quali facciamo i conti tutti i giorni quando siamo “impegnati a vivere”. Ogni artista di The Traveling Canvas impatta con visioni del mondo di altri artisti e di altri mondi, ed è invitato a contribuire alla “creazione di nuova cultura”.

  Quando affermiamo che il modo di pensare e di agire dipende direttamente dal complesso delle rappresentazioni che utilizziamo nel comprendere e spiegare il mondo, intendiamo dire che l’artista, “inventando la realtà”, mette in atto modalità simboliche di interazione con essa, sia nelle sue forme più tangibili (tecniche pittoriche, prospettive, preferenza nell’uso di materiali…), sia nelle sue forme allegoriche (l’insieme delle credenze e dei valori culturali che gli appartengono …). Il progetto attuato costruisce una esperienza in continua trasformazione, proprio in quanto multiculturale e circolare; non si riduce al banale ampliamento cumulativo di tratti grafici, ma evidenzia l’invito al confronto riconoscibile negli interventi di cambiamento che solo l’arte, nelle sue più squisite forme, è capace di attuare.

La possibilità di intervenire all’interno dell’opera altrui, come avviene in questa pregevole esperienza artistica, ha il potere di formulare nuove «versioni del mondo» e nuove transazioni con esso: sono queste che danno vita alle opere finali.   Non solo modificando «in profondità» l’opera prodotta dagli artisti che precedono, ma anche agendo da «fattore di trasformazione» per quelli che seguiranno, le opere complessive sono capaci di farci osservare come siano stati “ridiscussi” equilibri culturali stabilizzati. The Traveling Canvas costituisce, cioè, un esempio virtuoso di cambiamento cognitivo con un concreto valore «generativo», che non può non passare — dicevamo — attraverso occasioni di confronto di forte impatto personale, inducendoci a riconoscere consapevolmente dignità e legittimità anche a «versioni» diverse dalle nostre.

Fermarsi alla constatazione delle discontinuità ed incompatibilità tra patrimoni cognitivi, senza ricercare la sfida dei collegamenti possibili, ha il grave difetto di radicalizzare la incomunicabilità e la opposizione tra mondi culturali e depotenziare ogni strategia di dialogo. Una radicalizzazione, frutto dell’equivoco che la cultura possa essere intesa come un blocco unitario, omogeneo e coerente, piuttosto che come un complesso sistema di strategie intellettuali cooperative.

Le belle opere conclusive, a volte inquietanti per la trasformazione in-itinere, non hanno soltanto un valore estetico, dunque, ma sono il risultato di una “fertile” integrazione multiculturale della quale, solo nel tempo, comprenderemo compiutamente il significato rivoluzionario.

 

Patrizia de Mennato

6 settembre 2017