Corporeità dell’intangibile di Cynthia Penna

 

 

“Lo scopo è comprendere il carattere della bellezza presente; affinché ogni modernità acquisti il di-ritto di diventare antichità, occorre che ne sia stata tratta fuori la bellezza misteriosa che vi immette, inconsapevole, la vita umana”.
Charles Baudelaire

Introduzione
Parlare dell’arte di Laddie John Dill significa ineluttabilmente discorrere di arte “califor-niana” per eccellenza e precipuamente del movimento californiano denominato “Light and Space” che necessita di una introduzione sia pur breve e concisa in questa sede.
Quest’arte ha un background, un assetto e una specificità assolutamente peculiari che non trovano riscontro in nessuna altra produzione a livello mondiale perché fortemente influenzati da una specificità geofisica che pone la California esattamente a metà strada tra deserto e oceano e questo crea fattori determinanti in termini di percezione visiva e riflessione della luce.
Premesse alla nascita del movimento “Light and Space”
California inizi anni ’60: tutto comincia in questa soleggiata terra fatta di deserti e di Oceano e di luce:una luce particolare, riflessa dalla superficie dell’acqua, intrisa di una fo-schia naturale che la rende ancor più violenta: una luce biancastra che quando incontra le immense distese di deserto nell’entroterra, sembra materializzarsi in qualcosa che inizia a tremolare innanzi agli occhi confondendo la visione dell’orizzonte. Una combinazione unica di luce intensissima e luce riflessa che si irradia e si “deterge” nell’impatto con la secchezza dell’aria e dei venti.Aria “solida”,aria che pare solidificarsi allo sguardo:aria che diventa oggetto visivo, mentre l’oggetto della visione appare sfocato, tremolante, annebbiato, dai margini non definiti.
Prima della conquista del territorio da parte della colonizzazione spagnola, le popolazioni autoctone avevano denominato questa terra “la valle de fumo” proprio a causa di questo fe-nomeno naturale di fusione tra l’aria fredda dell’oceano e quella calda del deserto che impattando l’una con l’altra, danno origine ad una nebbiolina biancastra che si spande nell’atmosfera avvolgendo di sé paesaggio, uomini e cose.
Necessariamente da queste condizioni emerge una esigenza di confronto con gli elementi della spazialità e della luce per chiunque abbia accesso ad espressioni più o meno artistiche.
Pertanto spazio e luce diventano gli elementi fondanti della ricerca artistica di intere generazioni di californiani e non a caso hanno dato le origini al movimento tutto e precipuamente Californiano denominato “ Light and Space”.
Nel 2012 il Getty Research Center di Brentwood ha dedicato a questo movimento una grande kermesse durata un anno, che ha visto ben 80 Istituzioni pubbliche e private califor-niane coinvolte in esposizioni di tutta la produzione ad esso legata.
Tornando alla magia creata dalla fatale combinazione di elementi naturali, questa terra divenne presto un vero “eden” per artisti “cercatori di luce” e per quelli che lavoravano con il tema della spazialità.
Light and Space ebbe i suoi albori negli anni ’60 quando un gruppo di artisti che gravita-vano attorno alla Ferus Gallery di Los Angeles, iniziò a sperimentare nuove tecniche di espressione e nuovi materiali.
Ma soprattutto questi artisti vollero fortemente staccarsi dal “regime” imperante nell’arte americanaa quel tempo, molto legato agli esperimenti dell’Espressionismo astratto e dell’action painting degli artisti dislocati sulla Costa Est degli Stati Uniti e massimamente a New York.
Vi erano già stati segni precursori di questa “rivoluzione” intorno agli anni ‘20/’30 con l’abbandono della Costa Est da parte di un gruppo di artisti che erano emigrati in New Mexico a Santa Fe creando una comunità che, attorno alla carismatica figura di Georgia O’Keeffe, studiava il rapporto della pittura con la spazialità e la luce che pure erano elementi peculiari degli alti plateaux del Nuovo Messico. Ma mentre questi ultimi continuarono a sperimentare la pittura bidimensionale,la scultura ela fotografia,gli artisti Californiani della generazione successiva, decisero di rompere anche con i materiali “classici” e di introdurre nell’arte nuovi materiali come ad esempio gli allumini aerospaziali sulla scia delle ricerche in campo spaziale che la NASA stava portando avanti proprio in molti di quei deserti ivi esistenti; oppure le resine sintetiche, i metacrilati e soprattutto i neon facendo assurgere ad “arte” materiali adoperati nella quotidianità della vita. Altra fonte di “ispirazione” erano le Rod Cars cioèquelle automobili, diciamo “personalizzate”, che usavano pitture sintetiche a spruzzo e che giocavano con colorazioni accese e impensabili all’epoca per delle autovetture, ma che tanto entrarono nell’immaginario e nei desideri delle nuove generazioni di “ribelli” degli anni ’50 e ’60.
L’industria automobilistica fornì agli artisti nuovi materiali come le pitture “Murano” e una varietà di pigmenti riflettenti, perlescenti e iridescenti. Anche lo sport del surf beneficiò della recente introduzione di sostanze come fibra di vetro e resine e se ne appropriò per nuove creazioni. Molti artisti erano essi stessi surfers; imparando come usare questi materiali per lo sport, facilmente trasferirono ciò in un contesto artistico. Ispirati da queste attività gli artisti trasferirono il vocabolario dei materiali della cultura delle auto e dei surf in estetica, creando arte con superfici luccicanti, e proprietà riflettenti, trasparenti e traslucide.
Il linguaggio del “finish fetish” era nato. Un linguaggio tutto giocato sulla tridimensionalità come in John Mc Cracken e soprattutto sulla perfezione e levigatezza delle superfici a tal punto da indurre speciali effetti di percezione della luce, del suo riflesso e dell’effetto di “bounce back” cioè di rimbalzo della luce che dalle superfici si trasmette all’occhio umano.
Quali erano gli effetti ottici e soprattutto visivi di un raggio di luce riflesso da un metacrilato o da un alluminio e quali erano i mutamenti che l’oggetto subiva attraverso questi riflessi in termini di forme nello spazio?E quali erano le metamorfosi percepite dall’occhio umano in termini di colorazione dell’oggetto? Quest’ultimo poteva subire trasformazioni percettive anche in termini di forma e di colore se penetrato dalla luce? Grandi maestri come Robert Irwin e James Turrel si imbatterono in esperimenti, domande e incerte soluzioni più di quanto si possa immaginare.
Questi i temi che non hanno mai più abbandonato le generazioni a venire di artisti Californiani che, condizionati da una estrema intensità della luce e del colore, ancora attualmente continuano a sperimentare nuove forme di arte che contengano comunque i due elementi basilari di spazio e luce.

Laddie John Dill fa parte della seconda generazione di artisti “sperimentatori di luce”, avendo iniziato la sua carriera focalizzandosi,intorno alla fine degli anni ’60,su una ricerca espressiva determinata dall’uso di materiali non precipuamente destinati alla creazione artistica, come i neon cioè tubi luminescenti caricati ad argon e a mercurio e l’alluminio 6061 usato tra l’altro anche dalle ditte di fabbricazione degli aerei. Peculiarità dell’arte di Dill è stata proprio la ricerca e l’introduzione di questi materiali che definiamo “estremi” all’interno del mondo dell’arte.
“Sono un pittore che lavora con materiali tipici della scultura. Adopero materiali crudi, rudi in maniera poetica”: questa è una situazione del tuttoinconscia per Dill; l’uomo Dill è inconsapevolmente attratto da materiali non appartenenti ad un mondo pittorico e neanche artistico in senso “classico” del termine; Dill viene attratto dalle qualità tattili di questi materiali che siano allumini, cementi, terre: sempre crudi, sempre ruvidi, sempre difficili ed ostici.
Il vero challenge di Dill è proprio quello di manipolarli a tal punto e in tal modo, da ren-derli duttili, soggiogarli e restarne soggiogato dal fascino poetico che ne ha saputo esprimere.
E’ una situazione in cui il materiale non perde la sua identità; nella serie di opere denominate “Light Traps” ad esempio, l’alluminio non viene “modificato”, la manipolazione non ne intacca la struttura, anzi il materiale rimane tale con la sua indiscutibile, originaria proprietà; la maestria dell’artista è quella di porlo in “scena” e conferire ad esso poesia, farlo dialogare in maniera poetica. Offrire al materiale stesso un’altra possibilità di vita per cui l’oggetto così composto si pone di fronte allo spettatore in maniera tale da coinvolgerlo emotivamente: creare emozione.
Il percorso artistico
Come abbiamo già detto, la comunità di artisti californiani, di cui molti appartenenti precipuamente alla “comunità” di Venice,inizia verso la fine degli anni ’50 inizi anni’60,ad avvertire la necessità impellente di una rottura con il passato e soprattutto col bidimensionalismo del mezzo pittorico limitato alla pittura su tela con acrilici o con oli.
Il gruppo di ideologi riuniti attorno alla carismatica figura di Robert Irwin inizia a porsi il problema di come superare questa dicotomia; non solo, ma come conciliare il background “naturalistico” in cui sono immersi come condizione di vita e riversarlo in un prodotto artistico che stia fuori dalla pittura, fuori da schemi classici di rappresentazione visiva della luce e dello spazio.
Abbiamo già accennato che la sperimentazione passa attraverso i nuovi materiali: plasti-che, resine, neon, cementi, vetri, allumini, diventano mezzi espressivi di una intera generazione che li adopera snaturandoli della loro finalità industriale e quindi assoggettandoli a uso e finalità differenti.
L’humus esperienziale ed emozionale in cui viene immerso il giovane Dill è popolato da figure di grande spessore: la prima generazione di “rivoluzionari” è formata da artisti come Frank Gehry, DeWain Valentine,Peter Alexander, Larry Bell, Ed Moses, che coagulano attorno a sé le nuove leve dell’arte per formare una comunità di senso oltre che una comunità artistica; la sperimentazione diventa fulcro attorno a cui si sviluppa la ricerca artistica: per fare arte si passa attraverso esprimenti di chimica, di fisica, gravitazionali, elettrici: insomma una fucina di idee e di manualità come non si era mai vista in precedenza; e tutto questo giunge oggi immutato fino a noi con una generazione di eredi di quell’humus intellettuale a cui hanno attinto perfino poeti e scrittori come Bukowski: «Vivi in una città tutta la vita … Essendo cresciuto a Los Angeles, ho sempre avuto il sentimento geografico e spirituale di essere qui. Ho avuto il tempo di conoscere questa città. Non vedo altro posto che L.A.» (da un’intervista a Charles Bukowski 1974).
E la sensazione di appartenenza a questa città permea di sé le opere di tutti gli artisti: è una città che pulsa, che corre, che si muove continuamente; una città definita “liquida” proprio per questo atteggiamento di moto perenne che la sottende, di apertura al nuovo, all’ignoto, e di capacità di modificarsi costantemente ed in maniera velocissima. E l’arte che si produce in questa città ha caratteristiche del tutto specifiche e uniche: è un’arte che muta costantemente, anch’essa “liquida” nel senso simbolico di inafferrabilità dell’oggetto, impossibilità di “apprensione” perché sfuggente, dai contorni sfumati; oggetti smaterializzati e permeabili dalla luce che li trasforma a tal punto da creare una instabilità visiva nello spettatore, un dubbio percettivo sul cosa stia effettivamente guardando.
Le opere
“Il mio libro è un quadro” scrive Marcel Proust a Jean Cocteau, riferendosi alla “Recher-che” e alle sue molteplici relazioni col colore: elemento inserito da Proust quasi in ogni singola immagine, in ognuna delle tante “scenografie” del romanzo. “Sono un pittore e la mia tela è la stanza” dichiara Dill riferendosi alle sue installazioni con neon e sabbie e ai suoi “atmospherical works” che sono appunto scenografie di interi ambienti, atmosfere di senso in cui immergere completamente lo spettatore, chiudendolo in una sorta di placenta sensoriale che lo avvolge e ne determina la perdita del senso del tempo e, a volte, dello spazio.
Un Proust che “dipinge” ed immagina scene colorate in un mondo vissuto in bianco e nero o al massimo in tonalità grigie, ha qualcosa di paradossale e sconcertante al pari di uno scultore che “dipinge” stanze, interi ambienti non di colore materiale, ma di colore “mentale”, di colore che passa da una percezione sensoriale visiva attraverso un cervello che lo rielabora in termini di percezione “ambientale”. L’ambiente è reale, ma nel contempo è una elaborazione del pensiero e dei sensi che proietta in una dimensione metafisica tout court.
Una dimensione metafisica che dissolve la materia e la trascende attraverso la luce.
Dill crea in tal modo una poetica che è poetica di atmosfere: una luce che si diffonde nello spazio e trova semmai la sua fonte di ispirazione più in quella avvolgente e calda,quasi impalpabile di Paolo Veronese, di Vermeer, e di Piero della Francesca che in quella violenta e graffiante di Caravaggio e Rembrandt.
La poetica di questa luce è trascendente, è quasi mistica, di un misticismo meditativo.
La materia viene trascesa in modo da realizzare il passaggio dalla dimensione tridimensionale a quella bidimensionale “pittorica” senza neanche accorgersene. Attraverso le opere di mercurio e argon come le “Light Sentences”, si torna alla pittura con un mezzo che nulla ha a che fare con la pittura stessa.La luce,unico essenziale ed assoluto protagonista dell’opera, crea la scena; crea una situazione ambientale tout court; la luce emanante dai tubi di vetro colorato “liquefa” le superfici e la forma sembra dissolversi innanzi agli occhi; la forma viene dispersa nell’ambiente e diventa una sorta di contenitore i cui margini sfumano, si confondono nella visione, appaiono sfocati, anzi non esistono più in termini di materialità dell’oggetto.
La percezione sensoriale diventa illusionistica e transitoria; all’oggetto in sé si sostituisce piuttosto un “atto percettivo” che può modificarsi costantemente a seconda del punto di os-servazione della fonte di luce e della posizione del soggetto. L’oggetto non è più il fine dell’opera, ma diviene un mezzo estetico di puro accompagnamento della stessa, mentre la finalità vera, l’opera compiuta si identifica in due momenti: uno dato dalla proiezione della luce sulle pareti del contesto ambientale che la contiene e l’altro in un atto sensoriale percettivo dello spettatore. In tal modo ci si distacca dall’oggetto in sé per proiettarsi verso un accadimento sensoriale che crea dubbio percettivo, instabilità visiva, ma che crea nel contempo “atmosfera”, liquidità dell’immagine e perfino irrealtà del contesto circostante.
Possiamo definire le opere di Dill come vibrazioni di luce perché nella loro etereità sembrano vibrare di una “sonorità visiva” che modula la luce, la mescola, la intrappola e la dirige come in una sinfonia.
La vera poetica delle sue opere è data da un senso estetico della luce che viene intrappolata all’interno dello spazio per poi essere “rilasciata” e affluire verso lo sguardo dello spettatore, inondandolo e avvolgendolo; lo sguardo si perde abbandonandosi ad una specie di “sonorità musicale”, completando così l’effetto ipnotico della visione.

Installazioni di sabbie e neon
Le due installazioni di sabbie, terre e neon concepite per il Museo Archeologico di Napoli sono specificamente create per rendere palpabile il senso di irrealtà dell’atmosfera in cui si viene immersi. Il contesto museale accoglie il visitatore con l’opulenza e la preziosità del contenitore e del contenuto fatto di capolavori greco-romani che si “aprono” alla visione del pubblico. Quindi un assetto museale tradizionale per la presentazione di opere d’arte antica.
Le tonalità dei bianchi, dei verdi edei grigi dei marmi la fanno da padrone nel contesto am-bientale del Museo; i busti della statuaria greco-romana posizionati sui lati del salone di in-gresso del Museo, creano una sorta di corridoio centrale in cui il pubblico si sofferma e si orienta prima di avventurarsi nelle sale. Ebbene è proprio qui, in questo contesto simmetrico, ordinato e calmo, che Dill pone una installazione che è l’elemento di rottura dell’aspettativa del visitatore: l’accesso, la stessa possibilità di avanzamento fisico dello spettatore nello spazio museale viene sbarrato da una composizione materica e nel contempo eterea e irreale fatta di terre, di sabbie e soprattutto di luce che rompe l’equilibrio dell’alternanza di bianchi e grigi dei marmi e delle opere esposte, rompendo di fatto l’equilibrio scenografico dell’insieme.
Eppure da un tale impatto visivo nasce immediatamente un dialogo nuovo fatto di diversa percezione visiva del contesto: un dialogo che si basa su percezione di luce e colore. Di fatto tutte le pareti nei pressi dell’installazione cambiano colorazione e acquisiscono accenti di drammaticità e nel contempo di totale irrealtà.
Pilastri rosati che si confondono col nero delle terre vulcaniche poste sul pavimento: una colorazione che con gli accenti del rosa appare totalmente estranea al contesto e neanche realistica: una immersione in una atmosfera metafisica ed irreale del tutto destabilizzante.
Le sculture sembrano levitare e fluttuare nello spazio attraverso una totale perdita di matericità e finanche di peso. L’intera concezione classica della plasticità della statuaria tradizionale viene sovvertita dalla percezione visiva dell’insieme che non appare più né reale, né realistico. Tutto si smaterializza in una visione che non è più un vedere ma piuttosto un percepire.Lo spettatore viene immerso tout court in un’atmosfera surreale di trasparenza e rarefazione per la quale non si è nemmeno più certi della propria visione.
Paradossalmente assistiamo allo stravolgimento del rapporto spaziale delle opere nel contesto museale che le ospita: l’Ercole Farnese immerso nella luce irreale che proviene dalla contigua installazione, sembra perdere peso, materia, contorni, circondato da un’atmosfera che lo ingloba e lo assorbe, dematerializzandolo.
A tal proposito si parla infatti di “arte percettiva”: una tipologia di arte contemporanea che sviluppa e tocca molteplici “sensi” dello spettatore: un’arte che, attraverso una sorta di de-composizione visiva della materia, costruisce e ricompone una nuova opera con diversa materialità.
Le due installazioni di terre e neon seguono peraltro un percorso parallelo e contrario rispetto a quanto solitamente accade nella vita dei reperti archeologici.
In realtà occorre pensare al processo di interramento prima e di disvelamento poi che un ma-nufatto antico subisce: dapprima viene sommerso dal terreno, viene coperto dalla materia e dal tempo; successivamente, e a volte dopo secoli,viene riportato alla “luce” per essere esposto e guardato. Orbene Dill segue un percorso analogo e contrario per la creazione di un’opera “ambientale” : adopera la terra autoctona del luogo al fine di creare una connessione intima tra la sua opera e il luogo ove essa viene edificata; una intimità di senso, quindi, anche con la stessa terra residua dallo scavo archeologico che ha portato alla luce il reperto, e con quella terra sommerge i suoi vetri caricati a mercurio.In queste opere la luce è reperto in sé , opera d’arte in sé e Dill la sommerge di terra quasi nella simbolica funzione di preservarla, e nel contempo ne fa emergere tratti, frammenti, spezzoni che servono a trasformare l’intero contesto scenico in “altro”, fornendo così una ulteriore possibilità di percezione e, in definitiva, di visione.
Perciò si parla di “atmospherical works” in quanto in questa serie di opere dalla sabbia/terra emerge una forma/spazio fatta di luce riflessa percettibile ed intangibile al tempo stesso.
La “compressione” o il nascondimento della luce dei tubi di vetro al di sotto di una superficie, e la contestuale sua parziale fuoriuscita, crea riflessi che si irradiano nell’atmosfera fornendo una percezione dell’intero ambiente circostante totalmente spiazzante e destabilizzante.
Possiamo considerare Dill in queste installazioni luminose come un “paesaggista tonale” che realizza opere in cui la luce viene distribuita e si irradia quasi uniformemente nel paesaggio. Nella pittura “tonale”,massimamente appannaggio della pittura Veneta del ‘500 con Bellini e Giorgione, le tonalità del colore sono date sovrapponendo e alternando strati di pittura e velature con lievissime differenze, appunto tonali, che si disperdono nel paesaggio.
Dill effettua la medesima operazione: adopera la luce con un intervento “tonale”nel contesto; le colorazioni date dall’argon o dal mercurio iniettato nei tubi di vetro monocromatici si diffondono nell’ambiente quasi uniformemente ma con lievi variazioni di tono del colore attenuandosi man mano che si distaccano dalla fonte primaria di energia luminosa, ma permeando di sé l’intero ambiente come in una capsula contenente la massima contaminazione luministico-cromatica. Analogo ma differente rispetto alle stanze e agli ambienti di luce di Dan Flavin laddove l’intervento luministico appare molto più incisivo e violento anche dovuto al fatto che i neon di Flavin sono “esposti” vale a dire direttamente visibili dallo spettatore formando essi stessi scultura, opera in sé, mentre nelle installazioni di Dill i neon sono sommersi e parzialmente coperti ed interagiscono con altri materiali come le sabbie e le terre in un dialogo che va dritto a creare un’atmosfera sommessa e diffusa.
Il risultato è un ambiente carico di mistero, di poesia, di magia.
Il medesimo senso di mistero e di magia che si avverte entrando nelle “stanze sensoriali ” di James Turrell: in esse lo spettatore viene destabilizzato nella visione e nella percezione dell’ambiente che lo avvolge; si fa perfino fatica a non dubitare della propria stessa colloca-zione nello spazio circostante; la percezione dello spazio e del sé diventano non solo e non tanto mera esperienza sensoriale, ma piuttosto percezione di “atmosfera”, percezione com-plessiva esterna ed “interna”all’io: diventano piuttosto una sorta di “accadimento dell’io”:
esperienza di un momento di vita interiore, mistero dell’Universo in rapporto all’interiorità dell’Io.
Ma è col colore che Dill,comeTurrel, va a fare i conti.
Il colore è fonte e finalità della creazione artistica.
Il colore dato dalla luce diventa punto di riferimento e nel contempo finalità ultima dell’opera in sé.
Light Sentences
Le “light sentences” sono opere fatte di neon caricati ad argon ma non monocromatici ed anzi multicolori che nella presente installazione museale, vengono “accostate” alle opere greco-romane.
Light sentences è una “dichiarazione di intenti” fatta da Dill attraverso e con la luce.
Essa si pone come una “affermazione” di stato, una “situazione” attraverso cui Dill vuole af-fermare una realtà fatta di luce e di colore. Dill adopera per queste opere espressamente la parola “sentence”, vale a dire affermazione, dichiarazione e la sua dichiarazione si chiama “luce”. Il posizionamento nello spazio significa tout court “dichiarazione “, parola, verbo.
Ma le sue opere si inseriscono in un ambito di “frammentazione “ della parola che deve con-siderarsi come una sperimentazione unica nel genere delle opere fatte con la luce. Trattasi di un discorso frammentato reso attraverso spezzoni di vetro colorato fusi insieme a formare un tutto, ma il cui frammento conserva comunque una sua propria individualità e un suo proprio valore di senso.
Si tratta piuttosto della composizione di un linguaggio costruito per frammenti di colore e luce. Nulla a che vedere con le opere di neon di Kossuth o Bruce Neumann in cui il neon e la luce sono essi stessi “parola”, discorso compiuto e vengono adoperati per esprimere un con-cetto compiuto reso attraverso un linguaggio conosciuto. La parola, la frase, sono nei due artisti citati, immediatamente posti “in scena”, sono la “scena” artistica; sono comunicazione e nel contempo espressione e forma d’arte.
In Dill la struttura dell’opera viaggia su binari totalmente differenti: Dill affonda le radici del suo linguaggio espressivo nel processo di composizione della parola o della frase, vale a dire la composizione per “frammenti”: quei pezzetti di vetro colorato fusi l’uno accanto all’altro in successione analoga alla successione di consonanti e vocali che formano la parola. Quindi una indagine sulla composizione e scomposizione della parola per singoli caratteri di cui essa si compone. Si tratta anche qui di una forma di linguaggio che attiene alla comunicazione, ma in questo caso il senso e il contenuto di questo linguaggio sono racchiusi in una esperienza totalizzante di sola luce. Il contenuto della “sentence” non è qui riconoscibile perché non è questo che interessa Dill: quel che interessa l’artista in queste opere è il procedimento di base di formazione della parola, reso però solamente attraverso una esperienza ottica luminescente.
L’accostamento delle “Light Sentences” alla statuaria presente nel MANN acquista un signi-ficato specifico che, restando pur sempre nell’ambito di un linguaggio e di una forma di co-municazione, vuole sperimentare questa comunicazione solo attraverso i due elementi di luce e colore.
Dill afferma con tali opere la “sua” propria realtà di percezione: il contesto muta identità e si “riafferma” come realtà esistente in maniera differente da quella percepita fin’ora. La realtà iniziale viene pertanto modificata attraverso luce e colore, i due elementi con cui Dill dipinge la sua tela che è la stanza, l’ambiente, l’oggetto, e così il Toro Farnese, la Venere Callipige, Pan e Dafne, Afrodite e Flora vengono riletti, rivisitati,comunque ripensati .
Una visione inedita, forse anomala, ma che pone una situazione che è pur essa una realtà, anzi una affermazione di stato secondo cui l’oggetto della visione “può”essere anche altro: può porsi ed essere guardato in modo diverso.
Si consideri inoltre che Dill è nato e vive in una città dove si produce industria cinematografica e questo ha determinato non poche influenze sulla produzione dell’arte californiana in generale ed anche specifica del maestro.
Il cinema si muove per immagini, anzi per fotogrammi di immagini, per spezzoni di immagini; questi singoli spezzoni, pur facenti parte di un tutto che trova senso nella sua globalità, contiene però pur sempre un senso ed un significato anche nel singolo frammento. Ecco, Dill riproduce esattamente questa operazione: con le sue “light sentences” estrapola i singoli spezzoni di immagini che diventano opera chiusa in sé, affermazione e dichiarazione di senso.
La verticalità o l’orizzontalità della collocazione di tali opere nello spazio e la loro solitudine spaziale, accentua tale senso di posizionamento non solo fisico, ma ideologico dell’opera stessa.
Nell’accostamento di opere di luce multicolore accanto alla statuaria greco-romana presente nel museo si vuole accentuare l’aspetto diremmo “filmico” dell’accadimento descritto dalle sculture, cioè l’aspetto “illusorio” della visione. Artisti come Irwin, Turrel e Dill, ispirati dall’industria del cinema che crea illusione, con le loro opere creano illusorietà della visione. Esse sono illusioni visive.
Inoltre la luce serve al nostro per accentuare l’aspetto di drammaticità dell’accadimento rap-presentato: pensiamo alla drammaticità del “Toro Farnese” che, nella enormità del gesto e nell’eccesso di plasticità, di per sé è dramma, reso in un solo atto: del pari Dill, con tale accostamento, vuole esacerbare l’espressione drammatica della scena rappresentata dal “To-ro”accentuandone l’aspetto “filmico” del momento.
La statuaria greco-romana viene “accesa” dal colore, viene trasformata dal colore, operazione questa che si rende indispensabile per accentuare l’aspetto di “scena” cinematografica della rappresentazione. Ma il cinema è anche e soprattutto “illusione”, perciò le opere di Dill ricreano, riproducono e ricostruiscono una illusione: la stessa “illusione” di realtà che gli antichi offrivano al popolo a proposito dei loro miti o dei loro regnanti: l’illusione di potere, di forza, di onnipotenza.
In queste opere Dill offre allo spettatore un’illusione visiva, un sogno, una realtà irreale.
……“una parte del mio cervello è analitica: guardo i resti archeologici e osservo come sono posizionati nello spazio, o meglio, osservo come sono sezionati in spazi geometrici. Del pari dapprima posiziono la mia opera sul muro e la inserisco nello spazio: successivamente la esamino ulteriormente e scopro un intero mondo con la vita dentro” (Dill).

Aerial Perspective Grid
L’installazione presente nella sala cd del Soffitto Stellato presso il Museo Archeologico di Napoli si compone di 100 opere tutte diverse e tutte modulate con i medesimi materiali: ce-mento, vetro temperato e alluminio.
In queste opere Dill gioca con la percezione visiva illusoria di una tridimensionalità solo lie-vemente strutturata, ma percepita dalla visione in maniera molto più evidente.
Il procedimento tecnico adoperato per la loro esecuzione prevede ben 16 momenti o azioni in quanto i materiali vengono di volta in volta lavorati, portati allo stato liquido, raffreddati, poi i vetri tagliati e smerigliati, gli allumini riscaldati, colorati, lucidati, e così via di seguito in ore ed ore di lavorazione.
L’effetto però è niente affatto “tecnico”: non si tratta qui di assistere al tecnicismo di una costruzione di oggetti fatta in officina: tutto parte da una base, direi, costruttivista di divisione dello spazio “pittorico”; a differenza del costruttivismo più rigoroso, però in queste opere non vi sono rapporti matematici nella struttura di base, ma vi è certamente uno spazio suddiviso per campi pittorici geometrici. La linea geometrica, il disegno di base è tracciato a mano libera da Dill sul supporto, per cui tutta l’opera viene organizzata per campi pittorici che saranno in seguito riempiti non da pittura acrilica o ad olio, ma da materiali come cemento e vetro e comunque materiali adoperati solitamente per la scultura.
Ma il risultato per Dill “deve” assolutamente essere pittorico. Nulla è lasciato al caso, ma la pittoricità dell’effetto finale, il colore, la sua luce, la sua drammaticità devono essere la meta finale dell’opera. Trattasi di opere pittoriche rese con materiali che non sono pittura.
Un pittore che lavora con i materiali della scultura: questo è l’artista Dill: le modulazioni della luce, le modulazioni del colore, le pennellate che si intercettano nella visione globale, sono tutti effetti illusori di una pittura che è creata con elementi non tradizionali, ma che rimane irrimediabilmente “pittura”. Si tratta qui di realizzare una perfetta sintesi tra un costruttivismo basico dato dalla geometria delle sezioni del campo pittorico e un’astrazione espressionista data da materia e da colore che si fondono, si mescolano e si intrecciano in meandri sempre più complessi.
L’illusione percettiva è quella di una visione dall’alto della crosta terrestre con i suoi fiumi le sue valli e i suoi oceani; è un’illusione che emoziona.
“Rispetto la pittura ma lavoro con materiali da scultura perché mentre da lontano danno un certo effetto visivo, da vicino lasciano scoprire un mondo di fascinazione. Ci sono momenti nel mio lavoro in cui il materiale ha una vita propria e si sviluppa in modo autonomo” (DILL)
Arabeschi fatti di cemento che si intersecano con gli allumini e quindi si “accendono” di luce; linee geometriche addolcite dalla morbidezza della curvi-linearità attraverso cui si ripete l’illusione della visione. Anche in queste opere la percezione visiva è ambigua e questa ambiguità, questa incertezza,crea quel mondo di fascinazione cui accenna Dill a proposito dei “suoi” materiali espressivi.
Tutta l’opera di Dill direziona lo spettatore verso una percezione sensoriale complessa che serve all’artista per creare una condizione emozionale esistenziale illusoria e fugace, ma estremamente intensa.

L’omaggio di Dill al Museo Archeologico di Napoli è tutto racchiuso in questo dialogo tra le sue opere contemporanee e quelle di arte antica presenti nel museo.
Testimonianza visibile e tangibile della capacità dell’arte di rendere immortale la storia di popoli, di continenti e di civiltà a prescindere da differenze geografiche e di qualsiasi altra natura. Il sito museale diviene pertanto non solo e non tanto il luogo di preservazione di un manufatto artistico, ma piuttosto il luogo ove si preserva la storia e la civiltà di un popolo. Un luogo che assume quasi il carattere di sacralità come luogo fisico ove raccogliersi in un momento di meditazione sul vero senso dell’esistenza dell’uomo; testimone della capacità umana di generare cultura, bellezza e quindi fonte assoluta di vita.
Los Angeles, 1 Febbraio 2017

BIBLIOGRAFIA

1): Jan Butterfield: The Art of Light and Space
2) : Dave Hickey: Primary Atmospheres
3) : Robin Clark: Phenomenal California Light, Space, Surface
4): Hunter Drohojowska-Philp:Rebels in Paradise