Cynthia Greig

 

 

di Emiliano D’Angelo

 

 

La fotografia ha abbandonato la sua “età dell’innocenza” in tempi relativamente rapidi e recenti: negli ultimi decenni, l’impostazione modernista, autoriale che essa aveva ricevuto come eredità (e come fardello) dal sistema delle arti entro il quale era fiorita, è stata a poco a poco messa in crisi da un’avanguardia agguerrita di nuovi operatori che, partendo da una consapevolezza teorica molto più solida dei loro predecessori, hanno messo in discussione lo statuto ontologico stesso del fare fotografia, lanciando sul tappeto i temi del conflitto tra percezione ed esperienza, dell’enigmatica fluttuazione tra realtà e apparenza, della natura più o meno decettiva delle immagini riprodotte.
Cynthia Greig si allinea con coerenza ed estrema convinzione a tale linea, convenzionalmente definita “post-modernista”, della fotografia contemporanea; avendo impugnato spesso, soprattutto per il passato, le armi dell’ironia, della citazione e del distacco ludico, che notoriamente appartengono all’arsenale post-moderno fin dal suo primo costituirsi (vuoi in ambito figurativo che letterario).
Ma mi piace sottolineare nel suo modus operandi anche un’attenzione quasi artigianale per la componente fisica e materiale delle immagini: alla corrività e alla monotonia degli scatti in digitale, vengono anteposte tecniche più difficili e “retroverse”, come le emulsioni B/N cromogeniche o la stampa “a pigmento archiviale”, funzionali a sortire effetti quasi pittorici, non di rado spiazzanti per l’occhio di chi guarda.
Nella serie “Nature morte” (titolo in italiano), il trigger è costituito da una frase tratta dai taccuini di Leonardo da Vinci: “La linea in sé non ha materia né sostanza, e può essere considerata piuttosto un’idea immaginaria che un oggetto reale”. Ne scaturisce, quindi, una riflessione sulla malleabilità dell’esperienza visiva e sulla labilità dei confini della percezione. Riflessione portata a limiti estremi, attraverso un processo di riduzione fenomenologica delle realtà rappresentate (teiere e vanitas composite, frutti e fioriere, bottiglie dalla severità quasi morandiana) alle loro componenti essenziali ed imprescindibili, oltre le quali esse si dissolverebbero nel fondo bianco che circonda gli scarni agglomerati di linee di cui sono composte.
Il gioco, probabilmente, è quello di spingere ancora oltre la provocazione magrittiana consistita nello svelare la natura puramente convenzionale della rappresentazione artistica. “Questa non è una teiera” sembra dirci l’artista americana, “questa non è una bottiglia”, “questo non è uno specchio”. Affermazioni tanto più sconvolgenti se poste in riferimento ad immagini fotografate e non a raffigurazioni pittoriche. Roland Barthes pose a fondamento dello statuto ontologico della fotografia il principio di inscindibilità tra referente e significante, che aveva come corollario l’inconfutabile realtà dell’oggetto fotografato rispetto alle “chimere” inseguite dal pittore e dallo scultore (“dans la photographie, la pipe est toujours une pipe, inexorablement…”). Con gli ultimi scatti di Cynthia Greig, anche il dogma barthesiano sembra iniziare a vacillare sull’orlo di un fondale di tenebra bianca.