Lo strano caso del Dottor W.
di Emanuele Leone Emblema
L’informale spiegato partendo dalla differenza
tra una statua greca ed un nano da giardino.
“L’espressione di un’anima così elevata
oltrepassa di molto le forme della bella natura:
l’artista doveva sentire nel proprio intimo
la potenza spirituale che trasmise nel suo marmo.”
Johan Joachim Winckelmann
D’un classico ogni rilettura
è una lettura di scoperta come la prima
Italo Calvino
Se al giorno d’oggi non parliamo della Venere di Milo come della statua di una pallida vecchia invalida. E se nella precarietà del Partenone riconosciamo qualcosa in più, di uno stabile in attesa di abbattimento; in buona parte lo dobbiamo alle intuizioni di Johan Joachim Winckelmann. Il padre indiscusso dell’archeologia moderna, tra i più influenti e controversi pensatori del ‘700 e fulgida icona dell’olimpo gay. E dire che Winckelmann, nei suoi scritti non è che le avesse indovinate sempre tutte. Anzi, a credere a lui, la brulicante Atene di Pericle, doveva essere algida ed albina come la Brasilia di Niemeyer. Era convinto che i sanguinari e bellicosi spartani fossero un popolo di maniaci del fitness, tipo i modelli di Robert Mapplethorpe. Ed esaltava sopra ogni cosa la materia bianca ed indecifrabile delle sculture classiche, ignorando che in realtà le statue di Fidia e Lisippo nascevano colorate e sgargianti come quei nanetti di gesso che si mettono in giardino.
Tuttavia, è proprio in questo pozzo di errori grossolani e sviste filologiche, che in Winckelmann si ritrova un pensatore moderno, per molti aspetti rivoluzionario, e forse il primo, inconsapevole, teorico dell’ arte informale.
Non è privo di rischi, tirare una linea continua, tra il pensiero del grande cultore della classicità ed uno dei maggiori movimenti artistici del secondo Novecento. Tuttavia, coniugare Mathieu, Vedova, Turcato, Emblema, il Gutai di Sumi e Shimamoto, fino alle muffe di TTozoi, con la sensibilità che serve per apprezzare le rovine di un tempio greco, è assai più naturale di quanto si possa pensare.
Se in epoca moderna, ci sono stati degli artisti che hanno desiderato ardentemente (e fin troppo ostinatamente) essere considerati come i nuovi classici, questi sono stati proprio gli informali. Harold Rosemberg esaltando la dimensione eroica di questa pittura scriveva: “La tela è diventata l’arena di un avvenimento, di una lotta tra l’artista ed il proprio soggetto, se non addirittura tra la storia e le sue battaglie” .
Il nome “ Arte informale” lo trova il critico francese Michel Tapié nel 1952. Chiamò così alcune ricerche che fin dagli anni ’40 sperimentavano modi alternativi alla rigidità geometrica (ed intellettuale) delle avanguardie. Avanguardie che avevano sì rinunciato alla figura ed all’imitazione del reale, ma “componevano ancora la pittura secondo delle regole sintattiche” (G.C.Argan). Cioè dipingevano come se linee e colori dovessero significare un pensiero, descrivere una condizione. Il cruccio degli informali era al contrario, abolire del tutto la struttura grammaticale e gerarchica dall’opera d’arte. Liberare la materia, il segno, il gesto, da qualsiasi convenzione espressiva. In altre parole: quello che interessava agli informali non era tanto capire cosa si dovesse disegnare sul quadro, ma cosa fosse un quadro in sé. Su quali principi fondamentali si basava l’arte e qual’era il modo più immediato per esprimerla.
Scriveva ancora Argan: “L’informale non è una corrente: meno che mai una moda; è una situazione di crisi” Una crisi di valori, d’identità, di forme, che però né nasceva con gli informali né agli informali interessò mai risolvere davvero. Se ancor a oggi ottuagenari come Sumi e Shimamoto danzano su strani trampoli di bambù, e se le muffe di TTozoi scelgono ancora di accamparsi liberamente sulla tela, significa che l’informale, inteso come poetica della crisi, è tutt’altro che questione superata.
Quella dell’informale, non è però una crisi psicanalitica, che nasce unicamente da un trauma esistenziale. E’ una crisi tecnica, che si coagula intorno ad una domanda tutta interna alla pittura:
Come si fa a mettere la vita, l’esistenza (la bellezza?) dentro ad un quadro?
Molto in anticipo sulla domanda, e sulle sue stesse convinzioni, una risposta all’interrogativo l’aveva data Johan Joachim Winckelmann. Questo bibliotecario di Stendal è noto ai più, per essere stato l’entusiasta teorico del neoclassicismo ed uno dei massimi contribuenti del così detto principio del “Bello Ideale”. Se non desta stupore che un intellettuale tedesco, nel Settecento possa aver parlato di “idealismo”, è perlomeno anomalo, che un’idea così totalizzante di bellezza, sia venuta in mente proprio a Winckelmann, che per buona parte della sua breve vita, ha frequentato cantieri di scavo e descritto reperti archeologici. Winckelmann, infatti, fu capace di intuire l’espressione più alta della bellezza, nonostante avesse sotto gli occhi cose che si presentavano quasi sempre rotte, consumate, impastate di terra o aggredite dalle muffe. Insomma, manufatti senza più forma (…informali?) che di bello e grazioso avevano perso davvero tutto. Erano architetture ridotte a perimetri di colonne malandate e statue scabre, che quando andava bene, gli mancavano due arti su quattro. Ma lui, incurante, non solo vi riesce a trovare qualcosa di bello, ma vi percepisce addirittura, l’idea stessa della bellezza. Messa in questi termini, nasce ovvia la curiosità: da dove gli è venuto? E cosa ci trovava di bello in quelle che a rigor di logica, sembravano solo pietre rovinate dai secoli?
Winckelmann era un prete mancato, e probabilmente applicava il principio secondo cui uno, la voce di Dio, la sente sempre meglio in mezzo ai peccatori.
Fu però il primo ad avere la sensibilità teorica (gli artisti a livello pratico c’erano già arrivati da tempo) di accettare che il bello, o meglio l’emozione del bello, non si raggiunge costruendo un oggetto perfetto, ma casomai smontandone uno fino all’osso. Winckelmann parlando della bellezza dei reperti antichi, sebbene non lo capì affatto, dimostrò quanto fosse importante per l’arte eliminare il superfluo, abolire le forme, purificare l’opera da tutto ciò che non fosse destinato a durare. Ridurre, non comporre. Un po’ come si fa con le fusoliere degli alianti che rifiutano ogni superficie che li renda inabili al volo.
Winckelmann non lo disse mai, né mai lo pensò, ma con la sua sensibilità percepì che l’emozione provata di fronte ai reperti antichi, non c’entrava nulla con la disciplina antiquaria, ma apparteneva totalmente alla modernità: alla fisica aereonautica, alla fenomenologia dello spirito.
E’ questo il vero punto di adesione tra il pensiero di Winckelmann e la poetica degli informali, constatare (il primo inconsapevolmente, i secondi programmaticamente) che non è bella la superficie colorata dell’opera d’arte, ma la materia pura che gli si agita dietro. Entrambi sentivano che oltre la prospettiva si poteva finalmente distendere lo spazio. Esaurito il disegno, emergeva il gesto. Ed abolito l’alfabeto decorativo, restava a vibrare un segno, uno solo, sospeso ed universale.
La risposta che quindi Winckelmann dà alla crisi degli informali è: Si, la Verità, la Bellezza , l’Esistenza in un quadro ci possono entrare, a patto però, di fargli posto. E quindi sfrattare ogni orpello inutile, ogni riferimento ingombrante, ogni forma precostituita. Insomma, bisogna aprire l’opera all’esistenza.
E’Umberto Eco a parlare dell’informale come “Poetica dell’opera aperta”. Ed analizza il quadro come “campo di possibilità interpretative, come configurazione di stimoli dotati di sostanziale indeterminatezza, così che il fruitore sia indotto a una serie di letture sempre variabili”
Il discorso, forse, è più semplice e più complesso assieme. L’opera d’arte informale è aperta, non tanto perché suscettibile d’interpretazioni diverse. Ma perché se il quadro, a livello di composizione interna, tende alla riduzione, verso l’esterno, cioè nel suo rapporto col mondo, è costretto ad accogliere, ad aprirsi. Come per un principio di compensazione.
E’ per questo che l’opera informale generalmente , include sulla tela fattori che non sono pittorici in senso stretto, né derivanti dalla volontà dell’artista. Sono materiali grezzi, elementi ambientali, un principio organico o la partecipazione stessa dello spettatore al farsi del quadro. Tutto quello che l’opera rifiuta come regola compositiva, deve necessariamente riacquistarlo sotto forma di realtà esterna, o se preferite, sotto forma di verità.
L’archeologia è ancora utile a chiarire il punto. Pensate a cosa sarebbero le rovine di un tempio greco, senza la luce ed il paesaggio che si intravedono costantemente dal colonnato. Il Partenone, senza il cielo azzurro che ne invade la struttura, diventerebbe un’opera d’arte diversa (e probabilmente assai peggiore). Il cielo è un fattore esterno all’arte, raccolto dal campo dell’esistenza, che però inglobato nell’opera, si trasforma in elemento costitutivo e forse il più costitutivo e caratterizzante di tutti.
L’assenza delle braccia nella Venere di Milo, riesce a rispondere allo stesso criterio. In quel caso però, è la nostra stessa coscienza estetica, la nostra emotività, ad essere chiamata in causa. Siamo noi, in via intuitiva e sentimentale a dover colmare la lacuna. Per semplificare, Le braccia alla Venere, gliele mettiamo noi ogni qual volta la guardiamo. E per questo nostro “ruolo integrativo” ci sentiamo di poter entrare di diritto a far parte dell’opera d’arte e parteciparne all’essenza. L’opera è quindi aperta non perché incompiuta o indefinita, ma perché partecipata. E’ per questo che possiamo emozionarci, semplicemente guardando delle pietre vecchie di secoli, che se ne stanno incastrate tra la sabbia ed il cielo senza una valida ragione. Proviamo un sentimento che è di condivisione e di compartecipazione. Poiché lo starsene incastrati nel mondo senza sapere a volte perché, è una condizione che da uomini, conosciamo fin troppo da vicino. Nell’opera informale, così come nel reperto archeologico, questa dinamica di “addizione di coscienza esterna”, è solo resa più evidente, è portata alla luce e perciò, più facilmente percepibile dalla sensibilità dello spettatore.
Winckelmann, seppur per vie e gradi di comprensione differenti dall’arte informale, ha toccato con mano quella stessa modernissima verità per cui l’arte, se la privi della forma, ti diventa più facile capire che è -ed è sempre stata- a forma d’uomo.
N.B.
Se di fronte alla “nobile semplicità e quieta grandezza” di una statua greca non dovesse balenarvi alla mente proprio nulla di quanto fin qui espresso. E non riuscite ad emozionarvi nemmeno un pochino. Prima di rinunciare, assicuratevi non stiate fissando inutilmente, un nano da giardino.