Michal Macku
di Emiliano D’Angelo
Di cosa parliamo quando parliamo di fotografia?
A questo interrogativo apparentemente innocuo, privo di insidie, i più sarebbero tentati di rispondere sbrigativamente, sottoscrivendo l’enunciazione di alcune caratteristiche distintive, in grado di codificare una sorta di statuto ontologico: 1) quanto al supporto materiale, la fotografia è luce impressa su una pellicola; 2) quanto alla dimensionalità, essa contempla solo un’altezza e una lunghezza, ma suggerisce un’idea di profonodità simile a quella della pittura prospettica (per quanto ottenuta con estrema facilità ed economia di mezzi); 3) quanto al contenuto ed alle sue implicazioni teoretiche e concettuali, la fotografia è un riporto, una traccia fedele del reale, una sorta di readymade tascabile (il che giustifica anche l’importanza che essa ha assunto nella storia dell’arte più recente, dopo la crisi delle tecniche tradizionali).
Eppure, artisti come Michal Macku stanno lì a testimoniare che nessuna di queste tre affermazioni è vera fino in fondo.
Facile sconfessare il primo enunciato: molti fotografi si sono divertiti a sperimentare tecniche eterodosse basate su emulsioni speciali, montaggi, collages, spesso all’insegna di un recupero della manualità e dell’artigianalità dell’agire fotografico messo in crisi dall’avvento impetuoso del digitale. Macku, addirittura, ha elaborato una tecnica che sembra ibridare fotografia, pittura segnica e gestuale e stamperia artigianale: si tratta del “gellage”, misto di emulsione gelatinosa e collage trasferiti dalla pellicola su carta e poi arricchita da interventi manuali dell’autore (un tipico prodotto della fucina “liquida” degli anni ’90, in cui attraversare le frontiere espressive sembrava una necessità impellente e quasi irrinunciabile, dopo la disgregazione dei confini nazionali ed ideologici).
Per quanto riguarda l’aspetto dimensionale, la posizione di rottura di Macku è originata dal suo stesso approccio transmediale: le tracce fotografiche trasferite sulla carta guadagnano una consistenza materica e tattile inusuale, enfatizzata degli interventi operati in postproduzione (in realtà, una mera fase ultimativa della produzione stessa), che rendono ancora più evidenti e riconoscibili gli sconfinamenti nel territorio della pittura. Dichiaratamente volumetrici sono, poi, i gellages applicati su strutture di vetro in 3D, dove le ombre diradate dei corpi si imprimono quasi come sindoni.
Infine, l’aspetto contenutistico delle opere dell’artista ceco è stato correttamente inquadrato da Walter Guadagnino, uno dei nostri critici (e storici) più esperti in fatto di fotografia. Correttamente è stata messa in evidenza la connessione tra l’iconografia ricorrente del corpo umano con la statuaria classica ( i kòuroi dell’antica Grecia) e con alcune espressioni del movimento surrealista boemo. In particolare, al di là dei facili parallelismi con autentici capiscuola della fotografia come Karel Teige e Jindrich Stirsky, mi piace sottolineare il fatto che il pensiero visivo di Macku condivida una comune matrice mukarovskyana con le opere dei suoi modelli di riferimento. Dell’impianto teorico eretto da Mukarovsky, Macku ha ben assimilato alcuni concetti programmatici portanti, come la strategia dell’isolamento dell’oggetto da ogni contesto spaziale , la scoperta della “bellezza pittorica del torso..dell’oggetto infranto o deformato”, nonché l’incitamento a un golpe semiotico con cui la traccia impressa dall’artista (il segno-corpo, in questo caso) smette di rappresentare la realtà per sostituirsi completamente ad essa, secondo la logica spiazzante dei sogni.
Ma va anche detto che questo surrealismo rivisitato non va affatto nella direzione di una reverie estatica, di una tensione orgiastica e liberatoria: sterza gradualmente, anzi, verso la dimensione dell’oppressione e dell’incubo, dell’alienazione enumeratoria, con connotati vagamente espressionistici. Sembra guardare addirittura a Kafka e a Kubin, per citare due modelli letterari ancora squisitamente praghesi.
Una poetica maturata in un periodo di crisi epocale, subito dopo il crollo dell’utopia socialista, non poteva non prendere atto della incolmabile distanza che si era venuta a collocare fra gli esordi eroici del movimento (il più agguerrito e determinante di tutto il XX secolo) e questa fase ormai epigonica, solcata da profonde inquietudini millenariste.
La rappresentazione della realtà ha preso il posto della realtà stessa (fotogramma dopo fotogramma, pixel dopo pixel), sconvolgendo i presupposti teorici enunciati a suo tempo da Bréton e compagni. Qualsiasi uomo, qualunque cittadino, qualsivoglia soggetto (individuale o collettivo) che non detenga oggi le leve del potere della “macchina mondiale”, è portato a sentirsi un po’ un kòuros mutilato, sbalzato dal suo centro, disperso in un sogno destabilizzante da cui non si intravede una possibilità di sbocco. In questo senso, e per puro paradosso storico e programmatico, gli scatti “notturni” di Macku rappresentano la istantanee impossibili di un possibile risveglio, di nuovo al centro del proprio Io, in un cosmo ristrutturato, alla luce diafana e meridiana di una nuova visione della progettualità e della Storia.