Metafisica del paesaggio
di Cynthia Penna
Ancora Paesaggio? Ancora Natura? Ancora orizzonti, luoghi, nebbie, mari, montagne e colline?
No, decisamente no….!
Yasunari Nakagomi ha scelto piuttosto un luogo universale per esprimere la sua arte: il cervello, il cervello umano che disegna, fantastica, memorizza, introita e poi elabora, proietta la Sua particolare idea e la “sua” visione di quel che lo circonda trasformandola in idee, concetti, scritti, musica e opere d’arte.
E’ un’operazione di invenzione puramente intellettuale e onirica quella rappresentata da Nakagomi: una mera proiezione della mente umana su una tela.
Interessante è rilevarne il passaggio da momento individuale dell’artista a momento “universale” e nel contempo, solitario dello spettatore.
L’artista proietta il suo vissuto, il suo spazio mentale sulla tela ed è tutto lì, determinato e “chiuso”, il momento artistico; la propria individualità riversata sull’opera con tutto il bagaglio di ciò che forma il suo “sé” personale si conclude nel momento magico dell’invasione dello spazio pittorico: il gesto, il colore, la pennellata, la coscienza di sé, esautorano il compito individuale dell’”io – artista”; la sua funzione si conclude nel momento in cui l’opera è terminata.
Ma l’opera deve vivere al di fuori del sé individuale dell’artista ed è così che di seguito è compito dello spettatore proiettare il proprio vissuto su quell’opera che rievoca echi di esperienze, di momenti, di ricordi, di un background intellettuale formato da tutto ciò che il cervello ha introitato in una intera vita. Entra in gioco l’anima dello spettatore a riformare quello stesso paesaggio e a caricarlo di accezioni personali e individuali che l’artista non potrà mai a sua volta conoscere.
Il paesaggio si trasforma e si “riforma” sulla tela attraverso l’elemento vitale dello spettatore: colori non deformati dal visus, ma dalla mente; linee percepite in maniera difforme dalla realtà, forme mai create volutamente dall’artista prendono vita nella mente dello spettatore che “ricrea” il proprio quadro sulla base dell’opera di un altro. L’opera fuoriesce dalla capacità e dalla percezione dell’artista: non è più sua……. Diviene materia di altri, emozione, sensazione, ricordo, memoria di altro da sé.
La funzione del “paesaggio”, se così vogliamo ancora una volta definirlo, si risolve nella proiezione del proprio vissuto che si estrinseca attraverso l’emozione che quell’opera e non altra infonde nello spettatore.
Forse per dirla in termini psicoanalitici, ci troviamo di fronte ad una operazione di proiezione dell’inconscio sulla realtà. Connessioni sottili con eventi, situazioni, istanti del proprio vissuto; ricordi, memoria consapevole o meno. Il paesaggio come momento di immaginazione di quel che si può e si vuole immaginare di vedere. Ricerca del sé, luogo puramente mentale e giammai fisico: luogo onirico in cui il sogno si libera attraverso i colori, le ombre, i chiaroscuri che altri hanno fissato sulla tela.
Luogo “temporale” e non spaziale nel senso di luogo ove viene proiettato il tempo del proprio vissuto vale a dire l’accumulo di esperienze e relazioni della propria vita.
Un luogo costruito da altri e acquisito da altri ancora che se ne appropriano come luogo del proprio sé.
Ma non è stato sempre così in tutta la storia dell’arte? Non è forse vero che i paesaggi di Leonardo, di Piero della Francesca, di Raffaello “appaiono”, soltanto ad uno sguardo superficiale e fugace, rappresentare una realtà concreta, ma di reale non hanno nulla? Non sono essi stessi, e sommamente, paesaggi immateriali, irreali e sostanzialmente “mentali”? Cosa ne sappiamo veramente degli sfondi che disegnano i contorni dei volti delle donne di Leonardo? Sono spazi evanescenti e vibranti dove la visione si disperde e si confonde nel sogno; colori “mentali” e non reali quelli che circondano i suoi ritratti : un’aura, più che un “paesaggio”; a confermare una necessità prospettica delimitata alla sola composizione pittorica, ma fuoriuscente da ogni concezione ed da ogni necessità di riprodurre uno spazio reale.
E così tutti i grandi artisti del passato hanno profuso nel paesaggio un anelito di libertà spaziale esclusivamente e puramente mentale: gli spazi di Tiziano, i paesaggi di Turner e Constable, la grande tradizione veneta del paesaggio fino al paesaggio metafisico di De Chirico, sono solo ennesimi esempi di luoghi dove anche i colori , le sfumature, i tratti, sono irreali: luoghi esclusivi della mente quale capacità creativa e di immaginazione che va ben al di là di una riproduzione realistica delle cose e dello spazio.
Il paesaggio di Nakagomi si assesta sulla scia di questa paesaggistica di alto spessore intellettuale e si estrinseca attraverso una peculiarità tutta propria; quella di porsi sulla linea di demarcazione tra la tradizione pittorica giapponese e quella occidentale : l’artista media la gestualità della scrittura giapponese fatta di pennellate delicate e al contempo potenti, con la colorazione e la tecnica del chiaroscuro di stampo prettamente occidentale.
La levità ed evanescenza degli sfondi della pittura nipponica si esprime come una nebbia che avvolge la scena e rimanda alla tradizione storica e rituale delle ambientazioni di Hokusai e di Hiroshige ; a volte, invece, il tratto pittorico si esprime attraverso una pennellata più decisa che rinvia alla tradizione della scrittura orientale. Se ne distacca nelle colorazioni accese e nelle sferzate luminescenti dei fondi oro o argento (presi a prestito dalla tradizione medievale Italiana ed Europea) della preparazione a gesso della tela che, fuoriuscendo dal fondo, vanno ad accendere di luce la composizione.
Raggi di luce “feriscono” e squarciano il colore; colori Caravaggeschi “combattono” la loro battaglia con la luce che si irradia dal fondo: non siamo più nella calma orientale del paesaggio tradizionale giapponese, ma abbiamo toccato il lirismo della tradizione Barocca Europea e Italiana.
Un continuo rimando e una continua alternanza di Oriente e Occidente: una alternanza di due tradizioni pittoriche lontane tra loro, fuse da una sola mano, in una medesima personalità artistica.
Il Barocco italiano si fonde con la scrittura giapponese a pennellata spessa e quasi aggressiva.
Nakagomi vuole rappresentare uno stato dell’anima: anzi un “ritratto” dell’anima. La sua scelta espressiva diviene interessante se si pensa a quanto si profonde all’interno di un paesaggio in termini di proiezione personale evocativa dell’io.
Il paesaggio è e rimane in definitiva la massima espressione evocativa dell’io.
Un riflesso della personalità composita dell’uomo, una “pertinenza” dell’io per dirla in termini legali.
Paesaggio è tutto ciò che l’essere umano può proiettare del sé su di un oggetto o su di un evento. E’ l’io stesso riflesso su tela, su installazione, dentro una poesia, in una musica.
Paesaggio è tutto ciò che la mente umana può concepire , sognare, evocare, immaginare.
E’ ARTE allo stato puro.