REFLECTIONS : Silenziose meditazioni sugli stadi della visione

 

 

di Jaqueline Ceresoli

 

 

Reflections è il tema della mostra iconoclastica, meditativa in cui il protagonista non sono gli artisti, bensì il concetto di spazio assoluto, di vuoto come luogo mentale: un campo visivo del silenzio che raccoglie opere diverse, unite da un’inspiegabile tensione filosofica, con l’obiettivo di esplorare le espressività della luce, le profondità dello spazio e l’architetture del colore, con opere inserite nell’ambito della ricerca di percezione visiva sensoriale. Gli autori di questa esposizione d’indagine ottico-spazialista, in cui la luce diventa un solido e definisce volumi tridimensionali sono Lisa Bartleson , artista americana, concettuale, esponente del movimento californiano “Light and Space ”, ufficialmente riconosciuto nel 2011/12 in seguito a una serie di numerosi eventi organizzati dal Getty Museum distribuiti sul territorio californiano, e gli italiani Max Coppeta e Amedeo Sanzone, ricercatori di nuovi plasticismi dai codici astratto- geometrici, rigorosi concettuali possibilisti che sfruttano le proprietà dei materiali differenti e materializzano in forme solide i concetti metafisci. Diversi per età, luogo di nascita, formazione, cultura ed esperienze, questi tre autori condividono una ricerca spiritualista, con opere pure, minimaliste, dalle forme geometriche risolte in visioni luminose di tensione scultorea, originali per la sperimentazione di materiali innovativi, con l’obiettivo di coinvolgere lo spettatore in giochi di riflessioni, attraverso trasparenze, ombre, luminosità misteriose che invitano a pensare lo spazio in relazione al tempo, trasformando la luce e il colore in una possibile materializzazione dell’assoluto, dell’infinito in una complessa forma che svela trame metanarrative polisensioriali.
Osservando le opere messe a confronto per la prima volta in Italia, nella galleria milanese di Anna Maria d’Ambrosio (psichiatra-lacaniana, impegnata nelle risorse umane e in progetti artistici nell’ambito internazionale), vi sentirete in nessun luogo, fluttuerete come argonauti dentro a spazi immaginari, a visioni concrete intorno al concetto dell’infinito, come navigatori dell’invisibile, in cui il tempo e lo spazio sembrano essersi annullati. Qui, opera dopo opera, in bilico tra la riflessione sullo spazio vuoto come parte del tutto e sul silenzio che rompe la barriere del suono, in cui rallenta il pensiero di un domani ancora ignoto, lo spettatore viene proiettato in una dimensione oltre il limite della visione. La domanda è: ma quale spazio percepiamo nella nostra epoca digitale in cui virtuale e organico sono inevitabilmente complici?
Le opere esposte compongono una macro installazione che traccia uno spazio invisibile e immaginario, dove la luce diventa immagine e il colore architettura, iconizzando pensieri, riflessioni sulle ipotesi di un futuro, carico di attese, di citazioni e di forme archetipo della conoscenza e della misurazione dell’universo.
Lisa Bartleson (1968), si riconosce per opere composte con una tecnica nuova del mosaico realizzate con centinaia di tasselli di Mylar, una sostanza plastica made in USA inventata intorno al 1950, che assemblati insieme e sovrapposti l’uno sull’altro, creano accumulazioni, contrappunti plastici, volumi tattili, simili alle squame della pelle dei pesci, puntando sull’alterazione ottico- cinetica. Bartleson è biologa, predilige un approccio scientifico alle possibilità di espressione dell’emotività, procede per accumulazioni, ripetitività del gesto e ricerca visualizzazioni di  luminosità sprigionate dall’interno dell’opera, dall’energia misteriosa, basate sulla luce, sul colore e su pigmenti che interagiscono con la percezione dello spettatore. Nelle sue opere l’unità di misura è lo sguardo dello spettatore invitato a percepire soluzioni formali luminescenti che sembrano muoversi, scaturite dalla sperimentazione di una diversa fenomenologia di materiali e tecniche innovative per scandagliare le possibili ontologie. Ragione scientifica e liberazione emotiva si fondono in una superficie pittorica, prevalentemente sfere, simile all’iride di un occhio, al mondo, oppure a una galassia dal moto circolare, centrifugo, trasformando la luce in un solido, riflettendo sulla realtà dell’apparato piuttosto che sull’apparizione.
Max Coppeta (1980), scenografo multimediale, artista pluripremiato attivo nell’ambito delle arti visive new-media, pioniere di innovazioni tecnologiche applicate a diversi ambiti di ricerca, qui si presenta con ipnotiche Piogge sintetiche: gocce di resina, simili a lacrime incastonate in “fogli” di vetro come diamanti preziosi: qui la disposizione non è casuale, ma è il risultato di una composizione matematica. Ogni goccia è posizionata sulla superficie della lastra di vetro e corrisponde al centro della goccia più grande o più piccola posizionata al centro dell’altra lastra di vetro. L’accumulazione di vetro e le resine definiscono forme curve e convesse, creando un volume scultoreo dal fascino irresistibile, che emana un’ energia ipnotica dall’interno, paradossalmente emotiva e razionale insieme. Osservandole viene il desiderio di rompere la scatola di vetro per liberare l’emotività della “lacrima” congelata: sembrano bolle di ossigeno dentro un liquido amniotico che contiene il mistero della vita. Per Coppeta, autore di particelle di trasparenza solidificata: “ Tutta l’arte è scultura perché contiene in sé la terza dimensione , quella poetica”.
La sua materia liquida materializza intrinseche riflessioni metafisiche sullo spazio assoluto, sulle intensità luminose scomposte in micro-particelle visibili solo con il microscopio o con una lente d’ingrandimento, in cui più che il colore sono le trasparenze, le ombre, i vuoti d’aria ad invitare lo spettatore a guardare oltre la superficie dell’opera che piacerebbe a Lucio Fontana. Anche l’opera Long Drop II, composta da 30 lastre di vetro molato in successione per circa 2.80 metri sembra ibernare il flusso del tempo, che altera la percezione dello spazio e attiva una relazione “fatale” con lo spettatore. Amedeo Sanzone (1968), pittore, figlio d’arte, laureato in filosofia conduce una ricerca spiritualista, indagando le potenzialità espressive dei materiali oltre il visibile ed una programmatica oggettività. L’autore sperimenta materiali industriali come il plexiglass o Lexan , superfici riflettenti in cui lo spettatore si “specchia” e viene fagocitato dall’opera stessa, creando una sorta di distorsione della visione, d’effetto volutamente straniante. Sanzone predilige forme geometriche, pure, trasparenti che incarnano l’archetipo formale e superfici dalle proprietà specchianti che permettono allo spettatore di penetrarlo attraverso illusioni ottiche, che entusiasmerebbero Getulio Alviani, protagonista dell’Arte cinetica e programmata . Anche in questo caso, come nelle opere degli altri autori, il materiale non è soltanto un mezzo, bensì diviene il soggetto che struttura architetture visive, materializzando forme possibili di spazio. Queste opere apparentemente semplici, ma in realtà complesse dal punto di vista tecnico esecutivo, sono indirizzate al coinvolgimento dello spettatore.
Spirito e materia sono il soggetto della loro ricerca permeata di una spiritualità soggiacente con opere tese verso obiettivi percettivi innovativi in cui la luminosità diviene scultura e colore emozioni, innescando nello spettatore una riflessione sullo stato della visione a partire dalle leggi della percezione , della psicologia e anche della filosofia della forma: razionale ed empatica al tempo stesso.
Lacan scrive “Io sono nell’immagine”, e in questa esposizione questa riflessione è una materia visiva.