Philippe Soussan

 

 

di Emiliano D’Angelo

 

 

Un concettuale dalle implicazioni fortemente tattili, sensibili: questo l’ossimoro costituivo della poetica di P. Soussan.
Il mezzo fotografico qui ambisce a scavalcare un proprio limite intrinseco, quella piattezza dell’immagine che nessuna alchimia di laboratorio, nessun artificio o emulsione speciale possono ambire a sconfiggere per virtù propria: lo si può solo allestendo una messa in scena preparatoria molto accurata, il cui scopo è quello di realizzare immagini da sovrapporre ad altre immagini, suggerendo l’idea di anamorfosi incompiute, transizioni di stato ancora fissate in un momento intermedio del loro enigmatico evolversi (in quale direzione, poi? Partendo da dove? E con quale coefficiente di reversibilità?).
Tre sono i soggetti più visitati dall’artista belga, e tutti e tre si direbbero selezionati in virtù di una precisa strategia simbolica e comunicativa.
Le “Chèmises”, morbide corazze dai drappeggi misteriosi e allusivi, obbediscono a un impulso reattivo indirizzato contro l’ideologia contemporanea della nudità e della trasparenza (i social forum, i realities, il feticcio dell’informazione capillare e frenetica “costi quel che costi”).
I “Pommes” si ricollegano, invece, alla simbologia archetipica dell’ imperium mundi: uno stato di grazia originario che precede la caduta nel mondo fenomenico, sensibile, caratterizzato da precarietà e inconsistenza.
Lo stesso dicasi delle “Chaise mentales”, troni di carta su cui appare piuttosto arduo fondare un dominio stabile sul mondo (nella doppia accezione fisica e metaforica, con particolare riferimento al discorso sulla labilità della percezione ottica e del processo di elaborazione mentale dell’immagine) .
Impossibile non cogliere in questi ultimi scatti un omaggio alle “Three chairs” di J. Kosuth, di cui tutta la ricerca concettuale contemporanea, fotografica e non, risulta debitrice all’ennesima potenza.
La consistenza fragile e grinzosa con cui questi oggetti sono offerti alla nostra visione, genera un effetto calcolato di tensione, di inquietudine epistemologica, che custodisce al fondo un senso di intrigo e di avventura. Tanto più avvincente, quanto il nostro pathos esplorativo sovrasta l’angoscia di smarrirci. Tanto più profondo, quanto è profondo il solco del dubbio gnoseologico che solca la superficie della nostra coscienza di contemporanei.
Impossibile ridefinire i connotati cartografici del nostro io, tornare a quando sedevamo in trono con abiti regali: la sfera succosa della Conoscenza era stretta nel nostro pugno, alla cui morsa incoercibile, impietosa, niente (neppure la chimere partorite dai teologi) sembrava ancora in procinto di sottrarsi.