The traveling Canvas

 

 

di Adolfo Ferraro

 

 

“Il cadavere squisito berrà vino nuovo”

 

 

Che strana idea quella di comporre un’opera facendo lavorare in tempi diversi e lontano tra di loro un gruppo di artisti che agiscono sulla stessa tela che gira per il mondo. E che per il mondo si contamina, si arricchisce, si sporca e si pulisce, raccogliendo più linguaggi e più anime, diventando infine Altro dall’Altro.

Uomini e donne accomunati dal sentire gli stimoli (personali e collettivi) e produrre emozioni che si intersecano tra loro.

Artisti, insomma, che chissà come hanno accettato l’idea di incontrarsi e di stringersi, conoscendosi senza conoscersi e neanche guardarsi, consapevoli che quello che si vede al momento sarà diverso da quello che si vedrà dopo.

E il vero protagonista è innegabilmente lui, l’Artista, unico e coinvolto da quello che è già stato fatto da altri artisti e che si ritrova solo con il suo sentire che si incontra con altri sentire, con la sua capacità di contenere o di liberare le emozioni.

 

È quello che viene in mente guardando le opere di questa straordinaria sequenza di linguaggi, espressi con stile ma anche con rispetto di chi precede e di chi verrà, dove chi interviene deve agire muovendosi fra la continuità della sua personale espressione e la contaminazione della condivisione con altri di uno spazio definito, quello della tela e dei suoi limiti e delle sue possibilità.

Sotto certi aspetti sembra la rivisitazione in chiave moderna e figurativa di un “gioco” dei primi del novecento che i dadaisti chiamavano “Cadavre Exquis”, un gioco collettivo che consiste nel fare comporre una frase da più persone senza che nessuno possa conoscere l’intervento dell’altro, nella sequenza sostantivo/aggettivo/verbo/sostantivo/aggettivo, arrotolando un foglio di carta in cui ognuno del gruppo fa la sua parte. E così in queste opere su tela l’aspetto del gioco creativo mantiene intatto il significato di gioco, approfittando anche dell’aspetto ludico che la situazione propone.

La differenza sostanziale con l’operazione dadaista è che in quel caso chi procedeva non sapeva cosa era stato scritto dal suo predecessore, che però conosceva personalmente o almeno di vista.

In questo caso abbiamo invece degli artisti che sanno perfettamente cosa è stato prima di loro tracciato, arrivato con un corriere dall’altra parte del mondo, scartocciando di volta in volta dal contenitore un’opera che si arricchisce e cresce ad ogni passaggio.  Mentre non conoscono personalmente chi li ha preceduti e chi li seguirà.

E questo   trasforma il gioco in qualcosa che non è più esercitazione, magari passatempo creativo di annoiati artisti o spunto per riflettere sulla potenza dell’astrazione e del distacco psico-pedagogico da sé stessi. Ma diventa piuttosto batosta formativa/ distruzione costruttiva e collettiva / terapeutica quasi, fatta di incontro e a volte di scontro, di sovrapposizioni e di arretramenti, di rispetto reciproco e di narcisismo celato.

L’artista si deve porre ed esporre, e già questa operazione stimola e viene stimolata, e, in un tempo che non è calcolabile, diventa recettore di emozioni altrui.

Poi si deve confrontare, vincendo resistenze e protagonismi, narcisismi e competizioni, in un contesto che inevitabilmente supera i limiti e i confini: il confine imposto dalla forma, dall’educazione, da “il bianco è bianco e il nero è nero”, dai pregiudizi e dalla necessità del pragmatismo. Il confine visto come linea netta che divide e separa.

 

In queste opere invece il confine su cui ci si affaccia non è una linea netta, ma piuttosto un luogo, uno spazio in cui spostarsi anche per largo, esplorando quella zona definita grigia – ma in realtà carica di colore – che delimita il confine antinomico tra la norma e il suo contrario, tra utopia e realtà, tra bontà e cattiveria, tra accettazione e rifiuto. Influenzati e stimolati da contaminazioni che accompagnano il cammino in una ricerca che non necessariamente ha una meta o un obiettivo preciso, se non quello di trovare con l’istinto di chi non cerca gli aspetti intimi e rivoluzionari dello stare insieme per crescere.

Il confine diventa luogo, quindi, piuttosto che profilo, dove si transita senza l’intenzione di un sistematico rilevamento ma con l’istinto randagio di chi trova perché non cerca, sapendo che camminando si sciolgono i nodi: quello tra utopia e ubiquità, quello del pregiudizio, quello degli standard culturali, quelli della follia e della norma.

Dando infine la precisa individuazione di quella che potrebbe essere definita “Lanormalità dell’arte”: uno spazio comune in cui l’ombra della regola è il caos, il senso della norma è l’anormale.

 

Adolfo Ferraro