Napoli: paesaggi come visioni metafisiche
di Tiziana Tricarico da IL MATTINO del 29 Maggio 2014
Un astrattista poetico. Che guarda il mondo con gli occhi dell’anima senza limitarsi semplicemente a vedere. Un artista classico non nel senso di “antico” o di “non nuovo” bensì di pittore “di qualità”, che non rinuncia a tela, pennelli e colori ad olio anche se “contaminati” da una tecnica assolutamente personale. Rinnovando un’esperienza già vissuta con Todd Williamson e Lisa Bartleson, ART 1307, l’istituzione culturale diretta da Cynthia Penna, ha ospitato in residenza per oltre un mese e mezzo Yasunari Nakagomi, artista giapponese noto per i suoi “landscapes” (paesaggi). A conclusione del soggiorno napoletano sarà inaugurata GIOVEDI’ alle ore 20 a Villa di Donato (piazza S.Eframo Vecchio) la personale «Metaphisics of Lanscape» che propone fino al 15 giugno una trentina di lavori, tra cui quelli realizzati durante il soggiorno partenopeo.
-Qual è la prima cosa di Napoli che l’ha colpita?
«Quando sono arrivato all’inizio di aprile mi aspettavo una giornata di sole e mare blu. Insomma la Napoli da cartolina. Invece con la pioggia ed il cielo grigio l’ho trovata ancora più bella. Ed ho scoperto un mare molto più affascinante. Sono nato a Yamanashi tra le montagne, non lontano dal monte Fuji: non ho mai vissuto così vicino al mare da poterlo guardare e studiare con tutte le diverse luci della giornata. Il Vesuvio mi ricorda un po’ il Fuji, solo che io vedevo la montagna dall’entroterra e non dal mare».
-Come mai nei suoi “landscape” rinuncia quasi del tutto a connotazioni identificative?
«La mia teoria non implica una riproduzione o copia della realtà: voglio raccontare luoghi mentali, spazi dell’anima. Prendo qualcosa da ciò che mi circonda e la trasformo in un che di universale. Il paesaggio diventa così comprensibile per tutti senza alcuna distinzione di tempo o di luogo»
-Lavori intensi, ricchi di poesia, morbidamente seduttivi, da contemplare non con la mente ma con il cuore …
«Se la mia pittura riesce a toccare le corde del cuore delle persone allora vuol dire che ho raggiunto il mio scopo. Vorrei che ciascuno riconoscesse un proprio paesaggio».
-I suoi rimandano un po’ alle atmosfere di Turner …
«E’ vero. Quando ho cominciato a realizzare paesaggi ero focalizzato sulle linee orizzontali della terra: adesso dipingo l’aria ed il suo movimento. Quello che mi piace di Napoli è che il suo paesaggio muta continuamente: è questa la sua grande forza. Sono stato affascinato dalla bellezza della sua natura che ho assorbito in me e trasfuso nei miei quadri».
-Quali opere ha scelto di esporre a Villa di Donato?
«Oltre ai lavori realizzati ed ispirati a Napoli, presenterò dei quadri dipinti tra Tokyo e Los Angeles (le due città dove vive, ndr) come il ciclo dei sei paesaggi verdi. Capita che quando vivi in un Paese che non è il tuo ti rendi conto in maniera più intensa delle differenze culturali recuperando la tua identità d’appartenenza. Mi interessa l’arte americana ma non sono americano: devo essere me stesso. Tra gli artisti sento molto vicino James Turrell: sotto il profilo della tecnica lui ha portato in tre dimensioni la bidimensionalità di Mark Rothko, io l’ho riportata in doppia dimensione».
-Lei prepara le sue tele o carte con diversi strati di gesso bianco prima, oro o argento poi (questi ultimi reperibili solo in Giappone) che vengono scartavetrati fino a diventare lisci e sottili, una “pelle” sulla quale viene steso il colore …
«Attraverso movimenti circolari di addizione e sottrazione di materia. E dove il gesso oro viene lasciato in evidenza quello è il punto preciso su quale voglio che vibri la luce. All’inizio non so mai esattamente come verrà fuori l’opera: è una consapevolezza che nasce solo dal movimento delle mie mani».
-Qual è la prima cosa di Napoli che l’ha colpita?
«Quando sono arrivato all’inizio di aprile mi aspettavo una giornata di sole e mare blu. Insomma la Napoli da cartolina. Invece con la pioggia ed il cielo grigio l’ho trovata ancora più bella. Ed ho scoperto un mare molto più affascinante. Sono nato a Yamanashi tra le montagne, non lontano dal monte Fuji: non ho mai vissuto così vicino al mare da poterlo guardare e studiare con tutte le diverse luci della giornata. Il Vesuvio mi ricorda un po’ il Fuji, solo che io vedevo la montagna dall’entroterra e non dal mare».
-Come mai nei suoi “landscape” rinuncia quasi del tutto a connotazioni identificative?
«La mia teoria non implica una riproduzione o copia della realtà: voglio raccontare luoghi mentali, spazi dell’anima. Prendo qualcosa da ciò che mi circonda e la trasformo in un che di universale. Il paesaggio diventa così comprensibile per tutti senza alcuna distinzione di tempo o di luogo»
-Lavori intensi, ricchi di poesia, morbidamente seduttivi, da contemplare non con la mente ma con il cuore …
«Se la mia pittura riesce a toccare le corde del cuore delle persone allora vuol dire che ho raggiunto il mio scopo. Vorrei che ciascuno riconoscesse un proprio paesaggio».
-I suoi rimandano un po’ alle atmosfere di Turner …
«E’ vero. Quando ho cominciato a realizzare paesaggi ero focalizzato sulle linee orizzontali della terra: adesso dipingo l’aria ed il suo movimento. Quello che mi piace di Napoli è che il suo paesaggio muta continuamente: è questa la sua grande forza. Sono stato affascinato dalla bellezza della sua natura che ho assorbito in me e trasfuso nei miei quadri».
-Quali opere ha scelto di esporre a Villa di Donato?
«Oltre ai lavori realizzati ed ispirati a Napoli, presenterò dei quadri dipinti tra Tokyo e Los Angeles (le due città dove vive, ndr) come il ciclo dei sei paesaggi verdi. Capita che quando vivi in un Paese che non è il tuo ti rendi conto in maniera più intensa delle differenze culturali recuperando la tua identità d’appartenenza. Mi interessa l’arte americana ma non sono americano: devo essere me stesso. Tra gli artisti sento molto vicino James Turrell: sotto il profilo della tecnica lui ha portato in tre dimensioni la bidimensionalità di Mark Rothko, io l’ho riportata in doppia dimensione».
-Lei prepara le sue tele o carte con diversi strati di gesso bianco prima, oro o argento poi (questi ultimi reperibili solo in Giappone) che vengono scartavetrati fino a diventare lisci e sottili, una “pelle” sulla quale viene steso il colore …
«Attraverso movimenti circolari di addizione e sottrazione di materia. E dove il gesso oro viene lasciato in evidenza quello è il punto preciso su quale voglio che vibri la luce. All’inizio non so mai esattamente come verrà fuori l’opera: è una consapevolezza che nasce solo dal movimento delle mie mani».